Di Laura Gioventù
Contadini fotodi Gianluca Stradiotti da www.fotocommunity.it |
Oggi è quiete, la quiete dopo la tempesta. Ma anche quella che precede il temporale è quiete!
Vabbè, comunque sia, dopo l'acquazzone estivo di ieri è arrivato uno splendido sole, sono da poco passate le 16 ed è il momento ideale per uscire e fare un giro in bicicletta. Mi sembra l’occasione giusta per testarla dopo il restauro. La bicicletta, infatti, modello olandese, apparteneva a mia madre che l’acquistò nel 1973 con i soldi che aveva risparmiato trapuntando, sotto casa, le scarpe. Noi siamo “scarpari”, non ce lo dimentichiamo. E per anni è stata dimenticata in garage, abbandonata alla polvere e alla ruggine, fino a quando, insieme con mia sorella, abbiamo cercato di sistemarla alla meglio.
Monto in sella e scendo per il grande viale alberato che si affaccia sulla provinciale.
Come giro l’angolo mi accorgo di una piccola tabaccheria di cui ignoravo l’esistenza, nonostante, da quando mi sono trasferita qui due anni fa, ci passi davanti quotidianamente.
Sarà per la fretta oppure l’abitudine, ma con la macchina ci si concentra a guardare solo la strada, mentre ora sulle due ruote è buffo vedere come si cambi completamente scenario e punto di vista.
Proseguendo verso Fermo, la strada si fa un pò in salita ma la mia pedalata rimane comunque fluida.
Umidità ed afa sono scomparse ed è come se la pioggia avesse lavato anche l’aria che, così frizzante, rende meno cocente il sole di agosto.
Pedala che ti pedala, all’improvviso, mentre attraverso la viuzza di una piccola frazione, sento la bicicletta girare a vuoto e mi accorgo che la catena è uscita dalla sua sede.
E per fortuna che l’avevamo messa a posto! Questo è un bel guaio – mi dico- ed ora come faccio? Per la solita fretta di uscire, quella fretta maledetta che mi frega sempre, ho dimenticato pure il cellulare a casa!
Mi trovo davanti delle vecchie case tutte attaccate tra loro che stringono formando un piccolo borgo. Faccio alcuni passi con la bicicletta “a barbetta” ed intravedo l’insegna anni settanta di una piccola officina. La serranda è alzata così mi avvicino sperando di trovare qualcuno che possa aiutarmi ma, non appena faccio leva sulla maniglia della porta per entrare, mi accorgo che è chiuso. Provo allora a suonare il campanello.
- Cocca, non c’è nessuno è inutile che insisti! – sento dire,
mi guardo subito intorno per vedere da dove proviene la voce. Mi giro e vedo tre signore anziane sedute davanti l’uscio di una piccola abitazione, tutte intente ad osservare la scena in silenzio.
- Scusi signora, chiedo ad una delle tre, sa per caso se torneranno? L’officina è chiusa, cerco qualcuno che mi sistemi la catena della bicicletta. Chi mi potrebbe aiutare?-
Penso di essere capitata davanti le solite vecchie comari brontolone, rincoglionite e pure un po’ impiccione ma, nonostante la mia perplessità, mi avvicino procedendo a slalom tra i vasi di coccio di gerani spelacchiati che disegnano sul marciapiede uno pseudo recinto.
- Io ho aspettato tutta la vita che tornasse mio marito. Partì per la guerra e non è più tornato. Ancora lo sto aspettando … figlia mia, non tornerà nessuno, l’officina è chiusa! Il proprietario se n’è andato a miglior vita. Anche la casa è vuota, i figli fanno la loro strada e non hanno tempo per i loro vecchi …eh…la “capezzaja”(1) è dura …. ma fammi un po’ vedere qual è il problema …- Mi dice l’anziana signora,
mentre si alza dalla sedia mezza sgangherata e si china per controllare la mia bicicletta.
Minuta, con la schiena curva, la vestaglia a fiorellini incrociata alla vita e lo sguardo severo mi ricorda tanto mia nonna,che parlava proprio come questa signora e comincio a domandarmi chissà quanti anni avrà. Difficile stabilirlo, sicuramente più di ottanta, forse ottantacinque oppure novantacinque....magari anche duecento.
- Ora ci sono le macchine ma ai nostri tempi avevamo solo le biciclette per spostarci e quando eravamo noi a pedalare, dietro avevamo file di giovanotti che ci corteggiavano ogni domenica all’uscita dalla Chiesa. Aspettavano tutta la settimana per poter scambiare due parole, solo due parole con noi...facevamo le preziose…-
E mentre la prima signora era tutta concentrata a trafficare sulla bicicletta, l’altra proseguiva.
- Il sabato si andava a piedi fino a Grottazzolina, con il canestro in testa per vendere la uova al mercato. Facevamo più di dieci kilometri per fare due soldi che mettevamo via per comprare la biancheria, che faceva da corredo per quando ci si maritava...- , racconta la donna seduta sulla panchina di cemento.
Gli anni l’hanno appesantita e i piedi sembra stiano per spararle tanto sono gonfi. E’ tutta presa nel ricordo della sua gioventù e mentre parla sembra gli si sia risvegliato l’ardore di un tempo. Ma questa viene subito interrotta dalla terza donna, impaziente, come i bambini quando fanno a gara a chi corre più veloce, di prendere parola anche lei.
- Non avevamo niente, e molti di questi ragazzi partirono per l’America e l’Australia in cerca di lavoro. Alcuni si sposarono e si costruirono una vita là e non tornarono più in Italia. Di altri ci restano solo i sorrisi e le acconciature piene di brillantina. Chissà ora dove saranno tutti sti ragazzi….Anche le donne partivano, ma non tutte. Io sono rimasta qua ad aspettare per più di otto anni. Ci si sposava ma si restava tutti in famiglia e io avevo i figli troppo piccoli.- Dice la terza donna,
forse la più anziana di tutte, con il volto segnato, l’aria affaticata e la mano destra un po’ tremolante appoggiata ad un bastone.
Continuano a parlare, continuano a raccontare, continuano a ricordare sovrapponendosi fra loro, e hanno tutta l’intenzione di non smettere più.
- La domenica la “vergara” faceva la “pannella”(2). Non compravamo quasi nulla, il pane e la pasta li facevano in casa ogni settimana. Del maiale ammazzato a luna calante non buttavamo via niente e con il grasso avanzato e con la soda ci facevamo il sapone. Attorno al “callà”(3) stavamo ore a mescolare e quando, il sapone non veniva bene per l’invidia dei vicini che avevano malaugurato era una grossa disgrazia.-
-ma queste sono solo vecchie credenze, non è che per caso invece sbagliavate qualcosa nella ricetta?- mi permetto di interromperle.
-No, no, il sapone non veniva per l’invidia dei vicini oppure quando c’era una donna che aveva il ciclo e toccava il bastone che si usava per mescolare! E poi con quello stesso sapone andavamo al fiume a lavare a mano le lenzuola. E dopo averle lavate ci colavamo sopra la cenere con l’acqua bollente. I vestiti, anche quelli ce li cucivamo in casa. La mia era una famiglia numerosa, eravamo otto figli e ci scambiavamo i vestiti tra fratelli. Ci prestavamo anche le scarpe. I primi, di ritorno dalla messa della domenica, le passavano agli altri….i miei fratelli maschi ora sono tutti morti ma io li penso ancora….-
Donne anziane, donne sole, donne sedute sull’uscio delle loro case in un silenzioso riposo, donne a cui non avrei dato neppure un soldo di fiducia ed invece, invece sono proprio loro che mi aggiustano la bici mentre mi raccontano, prese dai ricordi e assalite dalla nostalgia, di quando essere abbronzati costituiva motivo di vergogna perché significava essere dei contadini, che prima di andare a scuola a piedi si “stramavano”(4) i maiali, di quando c’era solo il camino per scaldarsi in inverno e prima di coricarsi si scaldava il letto con “il prete e la monaca”(5), di quando i materassi erano fatti con le sfoglie del granoturco, di quando il ferro da stiro era di ferro e di quando le Marche erano sporche e per andare a Roma si faceva la Salaria a dorso di somaro.
Sono passate più di due ore, la mia bicicletta è sistemata e, mentre ritorno verso casa, ripenso a tutte le storie che mi hanno raccontato e che si confondono con i miei ricordi di bambina, quando mia nonna mi raccontava le stesse cose. Ma io avevo completamente dimenticato del sapone fatto in casa e la “pannella” non ho mai imparato a farla.
Sempre più spesso nella gente che incontro percepisco un disinteresse crescente, soprattutto per le nuove generazioni, nel conoscere le nostre tradizioni. Quasi un rifiuto, come se fosse motivo di vergogna che i nostri nonni fossero stati mezzadri.
Tutti questi racconti, spesso pieni di credenze popolari, sembrano vecchi di secoli ma sono stati realtà fino settant’anni fa. In poco più di cento anni la nostra epoca ha visto grandi cambiamenti. Cambiamenti talmente repentini che si rischia di dimenticare chi siamo e da dove veniamo. Cambiamenti pieni di storie, storie simili a quelle ascoltate, nelle quali queste donne hanno vissuto direttamente, anche se i protagonisti furono altri come loro, diventando presenze silenziose, testimoni di avvenimenti umani tutti da raccontare e da registrare,
e mentre pedalavo pensavo che se non le conservassimo la nostra storia, la storia della vita contadina della Marca Fermana non sarà mai raccontata fino alla fine per come è stata, ma solo per come ci piacerebbe fosse stata e andrà perduta per sempre.
Se non si corre ai ripari registrando tutte queste storie presto perderemo l'identità, la nostra identità, e a quel punto non ci servirà a niente fare le sagre se non ricorderemo il perché da noi il salame si chiama “ciabuscolo” o “ciauscolo”, e che vuol dire “vincisgrassi” e a cosa servono le ricorrenze se nessuno si ricorderà per cosa, se non raccogliamo tutte queste testimonianze tramite interviste o appositi centri di raccolta. Perderemo pure la ricetta del sapone.
È un grande paradosso fare appello alla nostra tradizione e alla Storia di Marca Fermana quando non sappiamo nemmeno conservare questo valore.
Ecco allora che, sulla stessa esperienza fatta alcuni anni fa in Piemonte, si potrebbe dar vita ad un vero e proprio Archivio della Memoria.
La Regione Piemonte finanziò tra il 1993 ed il 1996 un gruppo di ricercatori che andarono nei piccoli paesini ad intervistare gli anziani, con l’intento di documentare, attraverso le fonti orali, l’esperienza di guerra dei reduci del Primo conflitto mondiale ancora presenti sul territorio della provincia di Biella. Un’operazione di recupero e di valorizzazione della memoria e della storia orale dettato dall’urgenza della conservazione e che da una piccola porzione del territorio piemontese si estese alle altre province del Piemonte concludendosi nel 2007 in Lombardia con la videointervista a Delfino Borroni, l’ultimo reduce italiano della Grande guerra.
Facendoli parlare riuscirono a produrre un archivio della memoria notevole, chi parlava dei Savoia e chi del grande Torino, chi della prima macchina Fiat e chi della montagna.
Insomma, attraverso le interviste riuscirono nel compito di memorizzare una parte della storia.
La stessa cosa potrebbe fare la Provincia di Fermo che in forma simile potrebbe allestire dei centri di raccolta dislocati presso i centri sociali dei vari paesini, ed incaricare alcuni ragazzi di intervistare le persone anziane facendo delle video-interviste, raccogliendo racconti, storie e foto. Sarebbe un tentativo di fare storia “dal basso” dando voce, attraverso il ricordo sollecitato, alle persone qualunque, generalmente estranee ai circuiti della memoria “ufficiale” e per questo destinate a non lasciare tracce evidenti.
Note.
(1) Capezzaja, chiamasi l'inizio e la fine del campo da arare. L’espressione “…è dura la capezzaja” si usa, sempre più raramente, come eufemismo per indicare la vecchiaia, ovvero l'ultimo pezzo di vita più difficile come la fine del campo da arare dove diventa difficile girarsi con l’aratro.
(2) Pannella, ovvero “sfoglia” di pasta fresca all’uovo. Materia prima per lasagne o tagliatelle, in base a come viene tagliata.
(3) Callà, abbreviazione di “calderone”, grande contenitore in rame.
(4) Stramare, ovvero abbeverare il bestiame.
(5) Prete e Monaca, nome usato per indicare quella struttura di legno che si posizionava nel letto tra il materasso e la coperta. Al centro di questa struttura si piazzava una ciotola con manico di terracotta, la monaca, nella quale veniva messo carbone acceso e cenere che riscaldavano il letto. Il prete impediva alle lenzuola di essere a contatto con il carbone e di prendere quindi fuoco.
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