Il sabato dei ritardi.
Di Laura Gioventù
È sabato.
Sabato pomeriggio.
Il solito sabato del villaggio.
Del solito villaggio.
Il sabato di quattro amiche, donne, mogli e mamme che si ritrovano per il caffè, al solito bar, per le solite chiacchiere, nel solito villaggio.
Un villaggio chiamato Porto San Giorgio.
Sì, un villaggio, -non potrebbe essere definito altrimenti, perché non è grande nemmeno quanto un quartiere di Roma- dove si vive “tanto bene” con le case tutte nane!
Al solito, tra gli impegni di una o di un’altra è difficile organizzarsi ma, al solito, ci riusciamo sempre.
Al solito dovremmo essere in quattro. Questa volta siamo io, Lucia, Caterina ed Elisa…ma Elisa dov’è?
Elisa come al solito ancora non si vede. Lei è sempre in ritardo! Riesce persino a fare peggio di me, ma ogni volta, come al solito, si salva con una scusa sempre nuova. Chissà che cosa s’inventerà questa volta.
Ma eccola, eccola che arriva, Elisa. Impossibile non notarla.
-ragazze, avete già ordinato?-
Esordisce mentre si mette subito seduta. È sempre un po’ agitata. Oggi più del solito. Lo si percepisce nel tono della voce, alto e veloce con punte di acuti assordanti, ma anche nel modo di camminare.
Anche lo sguardo è irrequieto. Gli occhi grandi, che trucca sempre molto, ora guardano in alto, poi in basso e si distraggono spesso come a voler tenere tutto sotto controllo, sempre e comunque.
-Sei in ritardo di mezz’ora! Si può sapere questa volta che hai da dire a tua discolpa? E non mettere in mezzo tuo marito, perché questa è una scusa che non regge più! Inventane un’altra!-
Le dice Lucia ironizzandoci su, ma lei precisa.
- Il ritardo non è di mezz’ora ma di due mesi e mezzi … giorno più giorno meno …-
A quel punto tutte noi ci sentimmo contente per lei, e non mancammo di dirglielo con la solita appendice gossippara.
-Ma è una notizia fantastica che ci coglie di sorpresa! Che bello … tanti auguri!! ... come la Nannini, del resto è la tua cantante preferita.-
-… auguri un par di palle! …ed io non sono la Nannini!!-
-Elisa, ma che dici?-
Immediatamente è il silenzio!
-Ragazze, non mi guardate con quelle facce, avete capito benissimo!
Fare un figlio in queste situazioni è una fregatura.
Non ne ero sicura, speravo di sbagliarmi, pregavo e scongiuravo che non fosse vero.
Poi ho fatto il test.
Sono in attesa di un altro figlio.
Non so che fare. Non me l’aspettavo, non era previsto e neppure lo avevamo programmato!
Ed ora che farò con il mio lavoro?-
-Adesso che c’entra il lavoro con il figlio?-
Elisa si fa immediatamente seria ed ha gli occhi piedi di lacrime. La guardiamo ammutolite mentre continua a parlare.
-Al lavoro in passato ho creduto fino in fondo. Volevo essere intraprendente e piena di iniziativa, e mi sono ritrovata peggio di una stacanovista. Producevo, producevo senza sapere nemmeno che cosa stessi facendo. E più mi chiedevano più davo. Sempre, senza riserve e senza limiti! E come se non bastasse spesso mi portavo anche il lavoro a casa. Pensate quanto siamo fesse! Credevo che prima o poi mi avrebbero fatto fare qualcosa di più interessante. Ero addirittura convinta di fare carriera. Pensate un po’! Naturalmente pensavo male!
Solo dopo essermi sposata ho capito che qualche cosa non funzionasse. E l’ho capito esattamente dopo la nascita di mia figlia. Carriera finita, orari impossibili, proposte improbabili e condizioni assurde. Mi sentivo davvero sfruttata. Mi hanno anche detto "Se non fai quello che dico io, te ne stai a casa a fare la mamma!” oppure frasi come “Troppo tempo sprecato dietro i figli”. Perché, secondo loro, quel tempo lo avrei dovuto dedicare solo al lavoro. E' come se avere dei figli significasse in qualche modo essere monche, limitate, impedite.
A quel punto ho focalizzato il vero problema.
Ho capito che una donna sposata e con i figli non ha scampo, o si licenzia oppure accetta qualsiasi ricatto.
E non parliamo di carriere, quelle finiscono appena ci si sposa!
Io che cosa ho fatto? Ho resistito! Credevo che non fosse possibile accettare un licenziamento, ma alla fine hanno vinto loro. Ci sono riusciti. Alla fine lo hanno fatto. Mi hanno licenziata!
E sapete la cosa buffa qual è? Che al danno si è aggiunta la beffa!
A licenziarmi è stata una donna.
Sì, avete capito bene!
Una donna, una donna sposata, una donna con i figli, come me, come te, come noi.
Una donna che voleva far vedere all’azienda quanto lei fosse ligia alle regole.
Vi ricordate quella famosa canzone di VECCHIONI “SRONZA come un uomo”?
Ecco,esattamente così, una STRONZA!
Dopo che cosa è successo?
Ho dovuto fare la mamma.
Ovviamente la mia carriera è finita.
Ovviamente sono stata dipendente economicamente in tutto da mio marito.
Ovviamente sono andata in depressione.
Poi, dopo anni, ho deciso di ricominciare a vivere. Mi sono messa sul mercato del lavoro ma, con un marito e con una figlia sulle spalle se non accetti quei lavori saltuari e precari che ti propongono sei fuori dal mercato!
Da qualche mese ne ho trovato uno “decente”. Non mi piace ma me lo faccio piacere per forza.
Questo lavoro “decente” termina tra tre mesi per un altro eventuale rinnovo. Ma tra tre mesi sarò già entrata nel quinto mese di gravidanza e a quel punto nessuno mi rinnoverà più nulla.
Adesso avete capito perché è una fregatura?
Per non parlare poi di tutte le spese relative alla gravidanza e al dopo che si dovrà accollare mio marito. E sinceramente non so come faremo ad arrivare alla fine del mese.
Se porterò avanti la gravidanza diventerò mamma per la seconda volta. Bello, ma se non la porterò a termine continuerò ad essere una persona normale con la sua dignità lavorativa ed umana.-
A quel punto Lucia mugugna un commento e lo fa come se parlasse a se stessa. Come se si dicesse una verità che si era sempre evitata di confessarsi.
- Io invece ho mollato tutto, non ce l’ho fatta. All’inizio ho chiesto il part-time ma non me lo hanno concesso. Mi sono sentita dire “la porta è quella, se non ti sta bene te ne vai!” Sono stata costretta a scegliere e non ce l’ho fatta. Ho lasciato il lavoro e una carriera promettente e sono tornata a casa per i figli. Una donna di casa, ma fino a quando? Presto i figli cresceranno, e dopo? Ho fatto della famiglia l’unica mia ragione di vita.
Solo questo. Mi rimane solo questo…
Forse alla lunga anche io sarò una di quelle mogli cornificate dai soliti mariti che con la scusa di mantenere la famiglia li vedi uscire di casa al mattino tutti lindi e pinti e li vedi rientrare la sera tardi senza sapere minimamente che cosa hanno fatto delle loro giornate. Del resto loro non hanno sacrificato la loro vita, il loro lavoro, la loro carriera. Siamo noi donne che facciamo tutto ciò. A questo punto vi chiedo se facciamo bene, perché è tanto tempo che ho molti dubbi su questa storia.-
Cala una strana atmosfera sulle nostre teste.
“Ognuna in fondo persa dentro i fatti suoi!” Come quella famosa canzone di Vasco Rossi che tutti cantiamo, vedo Elisa e Lucia che guardano punti indefiniti nello spazio.
Ognuna persa dentro i fatti suoi.
Ognuna persa dentro i problemi suoi.
Ognuna persa dentro i pensieri suoi.
Ognuna persa dentro un universo femminile sempre uguale dappertutto.
Anche Caterina, anche lei sembra essersi persa. Anche lei, che non ha detto una sola parola, fissa su un punto indefinito del cielo.
Io ero lì, davanti a loro, e mentre le guardavo riflettevo.
Il problema esiste, ma non basta parlarne.
Forse è il momento che noi donne cominciamo ad organizzarci ed ha trovare soluzioni concrete altrimenti non arriveremo da nessuna parte.
Basta con le chiacchiere, basta con le sterili lamentele.
Non dovremmo permettere alla paura di fermarci, ma di spingerci ad andare avanti.
Superiamo l’individualismo e cerchiamo concretamente di venir fuori dalla palude.
Usiamo tutta la nostra capacità e le nostre mille risorse per reagire e metterci di nuovo in gioco!
Non ci lasciamo scoraggiare da un sistema ancora troppo maschilista.
Siamo sempre così impegnate nel vedere le altre donne come delle rivali.
Smettiamola! Anche questo ci penalizza.
Osserviamo invece i comportamenti solidali che l’altro sesso adotta con i propri simili.
Facciamo come fanno i maschi, che non mantengono la rabbia ma la stessa solidarietà di quando vanno a giocare a calcetto.
Annulliamo le diffidenze, le invidie e le rivalità e mettiamoci insieme, l’unione fa la DONNA.
Cara Elisa,
Care Amiche,
Care Donne,
Recentemente, come molte di noi, mi sono trovata nella condizione di cercarmi un lavoro, sia per ragioni economiche sia per ragioni puramente organizzative.
Senza un lavoro le giornate sono lunghe e si rischia spesso la depressione della casalinga. Durante la ricerca mi sono imbattuta nelle situazioni che tutte noi conosciamo bene: false promesse, ipotetiche assunzioni e anche proposte che nella realtà generalmente definiamo indecenti.
Ma la cosa che più mi ha fatto pensare è stata la paura che una donna alla ricerca di lavoro possa anche decidere di diventare madre e solo questo pensiero terrorizza i sedicenti datori di lavoro, maschi e femmine fa lo stesso, circa l'impossibilità di poter lavorare solo perché si voglia procreare.
Per mantenermi comunque impiegata e non volendo accettare la routine delle vane attese, ho iniziato a tenermi occupata facendo cose che prima non ritenevo possibili come collaborare con alcuni siti informatici con spiccate finalità giornalistiche e promozionali dando vita a delle interviste con personaggi politici e non della nostra Provincia e della nostra Regione. Ve lo confesso, ero spaventata, solo l'idea di formulare delle domande per poi pubblicarle su un sito mi metteva timore. Poi, come spesso accade, la cosa inizia a piacerci, affinando, intervista dopo intervista, il "mestiere" di intervistatrice. In questi contatti, che definisco "di lavoro", è emersa da parte di tutte queste persone, casualmente tutti maschi, il consiglio-invito di dar vita ad un’organizzazione che possa porsi come ausilio per ciò che riguarda l'ideazione e la realizzazione di eventi culturali. In sostanza un'Associazione Culturale con scopi e finalità definiti come da statuto ma con una caratteristica particolare: la possibilità che si dia vita ad una Associazione Culturale formata, almeno inizialmente, solo da donne, senza quella negatività che spesso siamo così brave a mettere in atto verso le nostre simili, dimostrando, che se volessimo, saremmo le migliori complici di noi stesse.
A mio avviso ci sono sia le premesse sia la possibilità di realizzare un'iniziativa del genere per la totale assenza di un’ Associazione similare con pari finalità ed identici scopi nel nostro territorio, ma anche perché c'è l’assoluta mancanza di una spinta ideativo-realizzativa relativamente gli eventi realizzabili in questa zona che venga direttamente dalle donne e dal loro mondo, e la presenza di manifestazioni generali alle quali manca quella componente femminile così determinante per il successo delle iniziative stesse.
Non solo dalle interviste, ma anche dalle conversazioni che ho avuto con tutta questa gente, sono più che certa che un'iniziativa del genere possa riscuotere un successo collettivo e allo stesso tempo riempire un vuoto sociale di cui la nostra Provincia e la nostra Regione non possono fare a meno offrendo altresì l'enorme opportunità di creare posti di lavoro, specialmente per le donne, ma non solo per loro, tramite la collaborazione tra la futura Associazione Culturale, che vorrei chiamare "Accento", e gli Enti Pubblici locali, ma anche con quelle aziende regionali che sono il nostro vanto produttivo a livello mondiale.
Spero che queste poche righe non ti abbiano annoiato ma incuriosito e mi piacerebbe che tu facessi parte di questa Associazione Culturale già dalla sua fondazione.
Laura
mercoledì 1 settembre 2010
CRONACHE DI UN’ASSOCIAZIONE ANNUNCIATA
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sabato 28 agosto 2010
Seconda intervista a Umberto Broccoli
“Poi non è che la vita vada come tu te la immagini. Fa la sua strada. E tu la tua. E non sono la stessa strada."
di Laura Gioventù
Fermo, sabato 28 agosto 2010
Il penultimo giorno della parentesi Fermana, Umberto Broccoli torna a giocare ancora con me.
L’intervista è diversa dalla precedente ma sempre da me guidata.
Le domande sono diventate cinquanta. Mentre nella prima erano scritte su pezzi di carta piegati ed estratte senza la possibilità di leggerle, oggi invece sono stampate su pezzi di carte di tre differenti forme geometriche (quadrati, triangoli e cerchi) e sono aperte.
Ecco le 5 domande scelte dal Professor Broccoli in questo secondo appuntamento.
Domanda n. 1
“Quando certi uomini di teatro sollecitano la partecipazione viva del pubblico ai loro spettacoli dovrebbero meditare sui pericoli cui vanno incontro.” Ennio Flaiano
Anche in radio è pericoloso far partecipare troppo il pubblico per evitare inutili confusioni e spostamenti, oppure è proprio la partecipazione e il coinvolgimento del pubblico che determina il successo delle sue trasmissioni radiofoniche?
Innanzi tutto dobbiamo chiarirci le idee sul discorso del pubblico.
La radio è nata per il pubblico e la radio è l’evoluzione del teatro. Nel senso che mentre il cinema ha il suo corrispettivo nella televisione, la radio nasce per i lombi del teatro. La prima radio si faceva dentro i teatri, si andava con il microfono e si trasmettevano i grandi concerti. Partendo da questo presupposto, dobbiamo poi fare chiarezza sulla partecipazione del pubblico. Il pubblico deve fare il pubblico, stare lì e sentire, apprezzare o non apprezzare se la cosa non è meritevole. Ma che si possa fare uno spettacolo con il pubblico, su quello che era uno degli stilemi della grande improvvisazione degli anni settanta, dove io scendo in mezzo agli spettatori, faccio le cose con loro, ed il pubblico diventa il protagonista, questo è un eccesso. Eccesso che, secondo me, può avere senso solamente a livello sperimentale perché la realtà è un’altra. La realtà è che c’è uno spettacolo, il pubblico vede e partecipa, apprezza o non apprezza. Quel metro, settanta centimetri o due metri, insomma, la distanza che c’è dal palcoscenico al pubblico non sono superabili. Da una parte c’è chi fa lo spettacolo e dall’altra chi lo vede e lo vive.
Quello che dice Flaiano va interpretato in questa direzione. Da questo punto di vista lui era un accademico e un rigoroso del teatro.
Domanda n. 2
“Siamo figli di mondi diversi una sola memoria
Che cancella e disegna distratta la stessa storia”
Ti scatterò una foto – Tiziano Ferro
Con l’invenzione della fotografia e del cinema si sta perdendo il senso della morte come evento storico, oramai sembrano tutti ancora vivi e vegeti vedendoli alla televisione. Questo strano fenomeno facilita le conclusioni degli storici oppure la fa diventare come un riassunto dell’eterno reality che è la vita di tutti noi?
Noi abbiamo perso il rapporto con la morte. Questo è verissimo, la domanda dice una cosa giustissima.
Faceva parte delle società primitive precedenti la nostra e lo abbiamo perduto negli ultimi ottant’anni. All’inizio del secolo scorso ed ancora oggi nelle società contadine la morte si accompagna. Non si lascia morire un vecchio in ospedale o da solo ma la morte viene vissuta come la fase finale della vita.
Nella società odierna questo valore è completamente perduto. Il compianto, che vuol dire appunto piangere insieme, partecipare, è un aspetto che è degenerato peggiorando ulteriormente negli ultimi anni televisivi.
Gli anni televisivi hanno plastificato tutto. Quello che si vede in televisione non è reale. Nel senso che nessuna delle icone televisive, uomo o donna che sia, si incontra per strada. Penso a determinati atteggiamenti clauneschi di gente che si veste e trucca in una certa maniera. Quello è veramente un barocchismo che non appartiene alla vita quotidiana. È fuori. È totale finzione. Del reato io dico sempre che per andare in televisione bisogna truccarsi, oppure tingersi i capelli. In teatro oppure in radio non ce n’è bisogno. Sei tu. Senz’altro la civiltà della fotografia è completamente differente da quella che è la civiltà delle immagini. Benché queste siano sempre figure, ma in movimento.
Non c’è del moralismo in questo, è semplicemente l’osservazione di un fatto.
Il fatto è che quello che si vede per strada non è quello che si vede in televisione. Punto.
Parlo di spettacolo, ovviamente.
Domanda n. 3
Non domandarmi dove porta la strada, seguila e cammina soltanto. La strada ci farà procedere.
E' Stato Molto Bello di Franco Battiato
Quale è la strada che sta seguendo?
Per altro è una poesia di Evtushenko. Franco Battiato e Mario Sgalambro hanno messo in canzone una poesia di Evgenij Evtushenko, se non ricordo male. La strada che sto seguendo è quella che dice il poeta russo e che cantano Battiato e Sgalandro. È la strada che mi porta da qualche parte. Tendenzialmente ho scoperto che più ci si prefigura un progetto, un percorso, un andare da un punto ad un altro, più diventa complicato. Non voglio certo dire che non ci si riesca, ma a volte si fa molta difficoltà. Spesso la strada della vita ti porta su percorsi completamente differenti che mai ti saresti aspettato di percorrere per cui non domandarti dove porta la strada, seguila e cammina soltanto! Trovo giustissima questa citazione.
Domanda n. 4
Se le dico Marche quale è la prima cosa che le viene in mente?
Il paesaggio. Penso al suo paesaggio che non è come quello umbro e toscano. È marchigiano, appunto.
Penso all’ordine quasi musicale del panorama, quell’ordine che il pittore Tullio Pericoli esprime perfettamente nei paesaggi e nei ritratti della mostra «Lineamenti. Volto e paesaggio» in esposizione presso il museo dell’Ara Pacis di Roma.
Se le dico Fermo?
Penso a sindaco Saturnino Di Ruscio. Sembra una stupidaggine, ma è così, e lo dico, con fermezza, perché il mio rapporto con Fermo è stato sempre mediato dal sindaco. All’inizio con molta diffidenza, adesso con una maggiore consapevolezza. Non la si può ancora chiamare un’amicizia, ma ci conosciamo da cinque anni. Lui per esempio è una persona che è quello che dice e devo riconoscere che è una qualità molto rara, non soltanto nella politica ma soprattutto nel panorama generale dei rapporti umani. Superando la persona, se penso a Fermo mi viene in mente il colore dei mattoni. Questa specie di grande forno nel quale siamo, un forno di mattoni, un forno nel quale si possono cuocere bene le pizze, dove in estate il caldo diventa caldissimo e d’inverno il freddo si fa temperato. Tutto questo sposato con una pulizia incredibile della cittadina. Non volendo prescindere dalla persona Saturnino, tutto il resto è mattone, mattone ovunque, bello, caldo, avvolgente. Siamo circondati dai mattoni ed è bellissimo perché siamo abituati a vedere le case intonacate. Qui invece mi sembra quasi di vedere i lavoratori che mettono uno sopra l’altro i mattoni per costruire palazzi e Chiese.
Se le dico Roma?
A Roma ci sono le mie radici. Paradossalmente mi viene in mente Roma 1960. Adesso sembra stantio, ma siamo stati i primi a parlarne in tempi non sospetti. Il 25 agosto del ’60 veniva inaugurata la XVII Olimpiade
di Roma. Recentemente mi è capitato di rivedere in televisione il film “La grande Olimpiade”di Romolo Marcellini proprio di quell’anno. Per motivi indipendenti dalla mia volontà, per il semplice fatto di essere nato prima, ricordo perfettamente quella Roma, i colori della città e gli autobus verdi e neri. Una città che stava vivendo un grandissimo sviluppo urbano e urbanistico accanto ad una campagna che poi sarebbe stata aggredita dalla speculazione edilizia, da uno sviluppo esagerato e disordinato di una urbanizzazione non studiata. È giusto urbanizzare, non è che possiamo cristallizzare tutto, ma non è giusto buttare cemento armato di qua e di là come se niente fosse creando queste periferie dormitorio che sono veramente una cosa sulla quale riflettere. Rispondendo in maniera banale, mi sarebbe potuto venir in mente i miei studi, il Colosseo e così via. Invece penso alla Roma del 1960, che era ancora la Roma del dopoguerra e che da quel momento in poi diventerà un’altra cosa, la Roma che poi ha portato a quella del giorno d’oggi.
Quindi una data come segno di un passaggio?
Sì, io non credo alle date come segno di passaggio, ma in questo caso la data è il segno del cambiamento. Come anche il 476 d.C. quando Roma cade per la prima volta sotto i colpi dell’esercito invasore. I barbari, le popolazioni straniere, entrano a Roma e dal quel momento la città inizia una nuova vita.
E se le dico Italia, che cosa le viene in mente?
Pensando all’Italia non mi viene in mente niente di particolare fuorché tutto.
La conosco abbastanza bene e penso ad un aspetto un po’ più antico e nascosto. Penso a quando il nome stesso di questa nazione è stato una parola nella quale generazioni intere si sono riconosciute e, senza arrivare alla retorica di De Amicis, il tricolore era simbolo di unità. Credo, senza retorica appunto, ad un minimo di patriottismo. Pensando all’Italia mi viene in mente un’unica nazione con tutte le sue differenze -siamo unità tra differenze- che ha le Alpi come confine ed il mare come altro confine. Poi penso anche ad una forma di forte orgoglio nazionale, alla riscoperta delle nostre radici. Siamo italiani e siamo differenti dai francesi, dai tedeschi, dai nordafricani, dagli slavi. Siamo italiani e siamo abbastanza riconoscibili come ethos.
Domanda n. 5
Il vero viaggio di scoperta, non consiste nel cercare nuove terre, ma nell'avere nuovi occhi.
Voltaire
Voltaire, padre dell’illuminismo. Mi riconosco perfettamente in tutto questo. Non avendo la passione di viaggiare, anzi, detestandolo, sono convinto che il viaggio si possa fare anche nel quartiere di fronte casa cambiando gli occhi. Il cambiamento siamo noi. Forse chi fa viaggi stupefacenti evidentemente non ha tranquillità interiore. Basterebbe immaginare di cambiare gli occhi che si scopre il bello anche a Passoscuro, una piccola località vicino Roma.
Ed infine una mia domanda per concludere il gioco.
Forma e sostanza: Lei ha scelto due domande racchiuse nei cerchi, due nei triangoli ed una nel quadrato; possiamo dire che nello scegliere una domanda piuttosto che un’altra c’è stata una piccola influenza sulla forma?
Quasi non c’ho prestato attenzione. Ho fatto caso ai tanti fogli di forma diversa sopra al tavolo ma non so se Voltaire sta sul rotondo o sul quadrato oppure Battiato sul triangolo. Nello scegliere, potendo leggere le domande, ho solo fatto caso alla sostanza.
“Il mezzo è il messaggio” diceva Marshall McLuhan
È possibile che nello studiare la storia siamo stati più suggestionati dalla “forma” esteriore (miti, eroi, battaglie) piuttosto che dalla sostanza storica degli avvenimenti accaduti?
Purtroppo la storia la fanno i vincitori. Da sempre.
Non la scrive chi ha perso e quindi, inevitabilmente chi scrive e fa la storia sono i vincitori.
Noi siamo tutti figli della storia scritta dai vincitori ed è chiaro che ne siamo anche influenzati.
Quando pensiamo per esempio a Napoleone Bonaparte pensiamo a chi ha scritto di Napoleone, pensiamo a quello che è stato detto e quindi creiamo quella che si chiama mitopoiesi, creiamo dentro di noi un mito. Dal greco μυθοποίησις, poie vuol dire “fare” e mithos è mito, quindi "creazione del mito". Noi creiamo un mito ed il più delle volte il mito non è realtà. La nostra operazione, in genere, anche nella vita quotidiana, dovrebbe essere quella di cercare di vedere qual è la sostanza reale delle cose, che cosa c’è dietro ad un fatto, una persona, un avvenimento. Capire dove si vuole andare a parare in sostanza. Credo sia questa la cosa più giusta.
Per quello che riguarda McLuhan, sulla questione che il mezzo possa diventare messaggio, sono state costruite intere biblioteche io però continuo a dire, che è il messaggio che governa e non il mezzo. Se si guarda il contorno, la cornice non sarà mai il quadro. È giusto che esista ma guardiamo il quadro. Ricordiamoci sempre che chi indica la luna con un dito, giusto un fesso guarda il dito e non la luna!
pubblicao su ... seratiamo.it
di Laura Gioventù
Fermo, sabato 28 agosto 2010
Il penultimo giorno della parentesi Fermana, Umberto Broccoli torna a giocare ancora con me.
L’intervista è diversa dalla precedente ma sempre da me guidata.
Le domande sono diventate cinquanta. Mentre nella prima erano scritte su pezzi di carta piegati ed estratte senza la possibilità di leggerle, oggi invece sono stampate su pezzi di carte di tre differenti forme geometriche (quadrati, triangoli e cerchi) e sono aperte.
Ecco le 5 domande scelte dal Professor Broccoli in questo secondo appuntamento.
Domanda n. 1
“Quando certi uomini di teatro sollecitano la partecipazione viva del pubblico ai loro spettacoli dovrebbero meditare sui pericoli cui vanno incontro.” Ennio Flaiano
Anche in radio è pericoloso far partecipare troppo il pubblico per evitare inutili confusioni e spostamenti, oppure è proprio la partecipazione e il coinvolgimento del pubblico che determina il successo delle sue trasmissioni radiofoniche?
Innanzi tutto dobbiamo chiarirci le idee sul discorso del pubblico.
La radio è nata per il pubblico e la radio è l’evoluzione del teatro. Nel senso che mentre il cinema ha il suo corrispettivo nella televisione, la radio nasce per i lombi del teatro. La prima radio si faceva dentro i teatri, si andava con il microfono e si trasmettevano i grandi concerti. Partendo da questo presupposto, dobbiamo poi fare chiarezza sulla partecipazione del pubblico. Il pubblico deve fare il pubblico, stare lì e sentire, apprezzare o non apprezzare se la cosa non è meritevole. Ma che si possa fare uno spettacolo con il pubblico, su quello che era uno degli stilemi della grande improvvisazione degli anni settanta, dove io scendo in mezzo agli spettatori, faccio le cose con loro, ed il pubblico diventa il protagonista, questo è un eccesso. Eccesso che, secondo me, può avere senso solamente a livello sperimentale perché la realtà è un’altra. La realtà è che c’è uno spettacolo, il pubblico vede e partecipa, apprezza o non apprezza. Quel metro, settanta centimetri o due metri, insomma, la distanza che c’è dal palcoscenico al pubblico non sono superabili. Da una parte c’è chi fa lo spettacolo e dall’altra chi lo vede e lo vive.
Quello che dice Flaiano va interpretato in questa direzione. Da questo punto di vista lui era un accademico e un rigoroso del teatro.
Domanda n. 2
“Siamo figli di mondi diversi una sola memoria
Che cancella e disegna distratta la stessa storia”
Ti scatterò una foto – Tiziano Ferro
Con l’invenzione della fotografia e del cinema si sta perdendo il senso della morte come evento storico, oramai sembrano tutti ancora vivi e vegeti vedendoli alla televisione. Questo strano fenomeno facilita le conclusioni degli storici oppure la fa diventare come un riassunto dell’eterno reality che è la vita di tutti noi?
Noi abbiamo perso il rapporto con la morte. Questo è verissimo, la domanda dice una cosa giustissima.
Faceva parte delle società primitive precedenti la nostra e lo abbiamo perduto negli ultimi ottant’anni. All’inizio del secolo scorso ed ancora oggi nelle società contadine la morte si accompagna. Non si lascia morire un vecchio in ospedale o da solo ma la morte viene vissuta come la fase finale della vita.
Nella società odierna questo valore è completamente perduto. Il compianto, che vuol dire appunto piangere insieme, partecipare, è un aspetto che è degenerato peggiorando ulteriormente negli ultimi anni televisivi.
Gli anni televisivi hanno plastificato tutto. Quello che si vede in televisione non è reale. Nel senso che nessuna delle icone televisive, uomo o donna che sia, si incontra per strada. Penso a determinati atteggiamenti clauneschi di gente che si veste e trucca in una certa maniera. Quello è veramente un barocchismo che non appartiene alla vita quotidiana. È fuori. È totale finzione. Del reato io dico sempre che per andare in televisione bisogna truccarsi, oppure tingersi i capelli. In teatro oppure in radio non ce n’è bisogno. Sei tu. Senz’altro la civiltà della fotografia è completamente differente da quella che è la civiltà delle immagini. Benché queste siano sempre figure, ma in movimento.
Non c’è del moralismo in questo, è semplicemente l’osservazione di un fatto.
Il fatto è che quello che si vede per strada non è quello che si vede in televisione. Punto.
Parlo di spettacolo, ovviamente.
Domanda n. 3
Non domandarmi dove porta la strada, seguila e cammina soltanto. La strada ci farà procedere.
E' Stato Molto Bello di Franco Battiato
Quale è la strada che sta seguendo?
Per altro è una poesia di Evtushenko. Franco Battiato e Mario Sgalambro hanno messo in canzone una poesia di Evgenij Evtushenko, se non ricordo male. La strada che sto seguendo è quella che dice il poeta russo e che cantano Battiato e Sgalandro. È la strada che mi porta da qualche parte. Tendenzialmente ho scoperto che più ci si prefigura un progetto, un percorso, un andare da un punto ad un altro, più diventa complicato. Non voglio certo dire che non ci si riesca, ma a volte si fa molta difficoltà. Spesso la strada della vita ti porta su percorsi completamente differenti che mai ti saresti aspettato di percorrere per cui non domandarti dove porta la strada, seguila e cammina soltanto! Trovo giustissima questa citazione.
Domanda n. 4
Se le dico Marche quale è la prima cosa che le viene in mente?
Il paesaggio. Penso al suo paesaggio che non è come quello umbro e toscano. È marchigiano, appunto.
Penso all’ordine quasi musicale del panorama, quell’ordine che il pittore Tullio Pericoli esprime perfettamente nei paesaggi e nei ritratti della mostra «Lineamenti. Volto e paesaggio» in esposizione presso il museo dell’Ara Pacis di Roma.
Se le dico Fermo?
Penso a sindaco Saturnino Di Ruscio. Sembra una stupidaggine, ma è così, e lo dico, con fermezza, perché il mio rapporto con Fermo è stato sempre mediato dal sindaco. All’inizio con molta diffidenza, adesso con una maggiore consapevolezza. Non la si può ancora chiamare un’amicizia, ma ci conosciamo da cinque anni. Lui per esempio è una persona che è quello che dice e devo riconoscere che è una qualità molto rara, non soltanto nella politica ma soprattutto nel panorama generale dei rapporti umani. Superando la persona, se penso a Fermo mi viene in mente il colore dei mattoni. Questa specie di grande forno nel quale siamo, un forno di mattoni, un forno nel quale si possono cuocere bene le pizze, dove in estate il caldo diventa caldissimo e d’inverno il freddo si fa temperato. Tutto questo sposato con una pulizia incredibile della cittadina. Non volendo prescindere dalla persona Saturnino, tutto il resto è mattone, mattone ovunque, bello, caldo, avvolgente. Siamo circondati dai mattoni ed è bellissimo perché siamo abituati a vedere le case intonacate. Qui invece mi sembra quasi di vedere i lavoratori che mettono uno sopra l’altro i mattoni per costruire palazzi e Chiese.
Se le dico Roma?
A Roma ci sono le mie radici. Paradossalmente mi viene in mente Roma 1960. Adesso sembra stantio, ma siamo stati i primi a parlarne in tempi non sospetti. Il 25 agosto del ’60 veniva inaugurata la XVII Olimpiade
di Roma. Recentemente mi è capitato di rivedere in televisione il film “La grande Olimpiade”di Romolo Marcellini proprio di quell’anno. Per motivi indipendenti dalla mia volontà, per il semplice fatto di essere nato prima, ricordo perfettamente quella Roma, i colori della città e gli autobus verdi e neri. Una città che stava vivendo un grandissimo sviluppo urbano e urbanistico accanto ad una campagna che poi sarebbe stata aggredita dalla speculazione edilizia, da uno sviluppo esagerato e disordinato di una urbanizzazione non studiata. È giusto urbanizzare, non è che possiamo cristallizzare tutto, ma non è giusto buttare cemento armato di qua e di là come se niente fosse creando queste periferie dormitorio che sono veramente una cosa sulla quale riflettere. Rispondendo in maniera banale, mi sarebbe potuto venir in mente i miei studi, il Colosseo e così via. Invece penso alla Roma del 1960, che era ancora la Roma del dopoguerra e che da quel momento in poi diventerà un’altra cosa, la Roma che poi ha portato a quella del giorno d’oggi.
Quindi una data come segno di un passaggio?
Sì, io non credo alle date come segno di passaggio, ma in questo caso la data è il segno del cambiamento. Come anche il 476 d.C. quando Roma cade per la prima volta sotto i colpi dell’esercito invasore. I barbari, le popolazioni straniere, entrano a Roma e dal quel momento la città inizia una nuova vita.
E se le dico Italia, che cosa le viene in mente?
Pensando all’Italia non mi viene in mente niente di particolare fuorché tutto.
La conosco abbastanza bene e penso ad un aspetto un po’ più antico e nascosto. Penso a quando il nome stesso di questa nazione è stato una parola nella quale generazioni intere si sono riconosciute e, senza arrivare alla retorica di De Amicis, il tricolore era simbolo di unità. Credo, senza retorica appunto, ad un minimo di patriottismo. Pensando all’Italia mi viene in mente un’unica nazione con tutte le sue differenze -siamo unità tra differenze- che ha le Alpi come confine ed il mare come altro confine. Poi penso anche ad una forma di forte orgoglio nazionale, alla riscoperta delle nostre radici. Siamo italiani e siamo differenti dai francesi, dai tedeschi, dai nordafricani, dagli slavi. Siamo italiani e siamo abbastanza riconoscibili come ethos.
Domanda n. 5
Il vero viaggio di scoperta, non consiste nel cercare nuove terre, ma nell'avere nuovi occhi.
Voltaire
Voltaire, padre dell’illuminismo. Mi riconosco perfettamente in tutto questo. Non avendo la passione di viaggiare, anzi, detestandolo, sono convinto che il viaggio si possa fare anche nel quartiere di fronte casa cambiando gli occhi. Il cambiamento siamo noi. Forse chi fa viaggi stupefacenti evidentemente non ha tranquillità interiore. Basterebbe immaginare di cambiare gli occhi che si scopre il bello anche a Passoscuro, una piccola località vicino Roma.
Ed infine una mia domanda per concludere il gioco.
Forma e sostanza: Lei ha scelto due domande racchiuse nei cerchi, due nei triangoli ed una nel quadrato; possiamo dire che nello scegliere una domanda piuttosto che un’altra c’è stata una piccola influenza sulla forma?
Quasi non c’ho prestato attenzione. Ho fatto caso ai tanti fogli di forma diversa sopra al tavolo ma non so se Voltaire sta sul rotondo o sul quadrato oppure Battiato sul triangolo. Nello scegliere, potendo leggere le domande, ho solo fatto caso alla sostanza.
“Il mezzo è il messaggio” diceva Marshall McLuhan
È possibile che nello studiare la storia siamo stati più suggestionati dalla “forma” esteriore (miti, eroi, battaglie) piuttosto che dalla sostanza storica degli avvenimenti accaduti?
Purtroppo la storia la fanno i vincitori. Da sempre.
Non la scrive chi ha perso e quindi, inevitabilmente chi scrive e fa la storia sono i vincitori.
Noi siamo tutti figli della storia scritta dai vincitori ed è chiaro che ne siamo anche influenzati.
Quando pensiamo per esempio a Napoleone Bonaparte pensiamo a chi ha scritto di Napoleone, pensiamo a quello che è stato detto e quindi creiamo quella che si chiama mitopoiesi, creiamo dentro di noi un mito. Dal greco μυθοποίησις, poie vuol dire “fare” e mithos è mito, quindi "creazione del mito". Noi creiamo un mito ed il più delle volte il mito non è realtà. La nostra operazione, in genere, anche nella vita quotidiana, dovrebbe essere quella di cercare di vedere qual è la sostanza reale delle cose, che cosa c’è dietro ad un fatto, una persona, un avvenimento. Capire dove si vuole andare a parare in sostanza. Credo sia questa la cosa più giusta.
Per quello che riguarda McLuhan, sulla questione che il mezzo possa diventare messaggio, sono state costruite intere biblioteche io però continuo a dire, che è il messaggio che governa e non il mezzo. Se si guarda il contorno, la cornice non sarà mai il quadro. È giusto che esista ma guardiamo il quadro. Ricordiamoci sempre che chi indica la luna con un dito, giusto un fesso guarda il dito e non la luna!
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giovedì 26 agosto 2010
CRONACHE MATRIMONIALI
Nulla è più vero delle bugie …
Di Laura Gioventù
Il mare di fine agosto ha un fascino tutto particolare.
I villeggianti cominciano ad andarsene, le spiagge sono meno affollate. L’aria inizia ad essere più leggera, non si vede una nuvoletta all’orizzonte ed il mare è una tavola blu, come cantava Baglioni.
È sempre il solito paradosso, quando cominciano le vacanze piove sempre e quando si deve rientrare a lavoro fa bel tempo e, per chi può, si va al mare fino al cinque di ottobre, come è successo l’anno scorso.
Per mia sorella è l’ultimo giorno di ferie e la tristezza è quella tipica del primo giorno di scuola. (molta gente è felice il primo giorno di scuola però)
I mariti non ci sono mai, con la scusa del lavoro o degli amici trovano sempre qualcosa di meglio per scappare via, io non ho voglia di cucinare per i fuggiaschi, e lei non vuole perdersi l’ultimo raggio di sole, quindi decidiamo di prendercela comoda e fermarci a pranzo allo chalet, il solito chalet.
Ci sediamo approfittando di un piccolo tavolino sotto la veranda, e mentre stiamo aspettando di pranzare, vado in bagno.
Il tempo di lavarmi le mani che già sono arrivati i miei spaghetti allo scoglio. Ma oltre alla mia pasta trovo al tavolo anche Serena, una nostra amica.
-Ciao Sere, dove stai andando?-
le chiedo mentre mi metto subito seduta perché sto letteralmente svenendo dalla fame e non vedo l’ora di mangiare.
-Sono appena arrivata, vado in spiaggia a fare quattro passi. Ho bisogno di pensare un po’ e di chiarirmi le idee ...-
Perfetto, penso io, così forse ce la farò a mangiare in santa pace.
Serena è sempre lei, la solita invadente appiccicosa, è davvero una brava ragazza, ci mancherebbe, ma quando comincia a parlare è la fine. Tra poco si piazzerà qua e chi la sposta più!
-…ma hai già fatto pranzo? Una passeggiata a quest’ora del giorno non è proprio il massimo.-
le dico.
È un po’ che non la vedo, osservandola meglio la trovo molto dimagrita ma abbronzatissima. Indossa un top a fascia molto sexy e dei pantaloncini bianchi cortissimi. Decisamente troppo audaci per lei che in genere veste in maniera molto più sobria. Sta molto bene così anche se ha l’aria stanca. Anche i capelli hanno qualcosa di strano, e non riesco a capire se li ha solamente stirati oppure anche colorati. Naturalmente non le chiedo nulla altrimenti il suo ego si gonfia come una mongolfiera.
-No, come potrei sono troppo sconvolta e mangiare è l’ultimo dei miei pensieri … -
Inutile che la inviti a sedere perché, come avevo previsto, si è già accomodata tranquillamente da sola e senza nemmeno farsi pregare inizia subito a raccontare. Non ha fame ma la prima forchettata ai miei spaghetti la da lei, alla faccia dei pensieri.
-Ieri mattina sono rientrata a lavoro dopo tre settimane di ferie. Tra la stanchezza accumulata tirando tardi tutte le sere e la fretta di partire per non arrivare in ritardo, prendi questo e prendi quello ho lasciato il cellulare a casa. Non me ne sono accorta fino a quando alle undici mi chiama in ufficio mio marito per avvisarmi del telefonino dimenticato. Mi dice che siccome era arrivato un messaggino, si è permesso di aprirlo e di leggerlo e che si trattava delle solite pubblicità via sms. Mi colse subito un’inquietudine strana e mentre mi stava parlando di un errore su una bolletta elettrica e stronzate varie mi prende il panico! Sulle prime non avevo realizzato ma poi il dubbio atroce che prendendo in mano il telefonino abbia potuto sbirciare e leggere tutti i messaggi memorizzati si insinua prepotentemente nella mia mente. Comincio mentalmente a passare in rassegna tutti gli sms sforzandomi di ricordare che cosa avessi cancellato mentre continuavo ad annuire per inerzia, senza comprendere una sola parola, ai farfugli telefonici di mio marito. Ad un certo punto mi chiede come sia andato l’appuntamento e come era il caffè che ho preso la scorsa settimana con il mio amichetto. Amichetto?! Gelo. Quelle parole mi paralizzarono all’istante.
Se è vero come è vero che due più due fa quattro, ho immediatamente compreso di aver dimenticato di cancellare un paio di sms forse un po’ compromettenti e curiosando nel telefono li ha sicuramente letti. Me ne ero proprio scordata. Terrorizzata per non avere argomenti validi per giustificarmi, stavo pensando a come potergli spiegare ma improvvisamente, per mia fortuna, la conversazione è stata interrotta dall’arrivo di un fornitore.
In realtà non c’era scritto proprio niente di strano, era solo l’invito per un caffè e due chiacchiere di un mio amico che ho conosciuto in treno quando sono andata a trovare mia madre in ospedale l’anno scorso. Invito che tra l’altro non ho nemmeno accettato.-
- e questi, secondo te, sono sms compromettenti? Chissà che pensavo!-
Le dico mentre nel frattempo la mia pasta sta diminuendo a vista d’occhio.
-Questo ragazzo è solo un conoscente, ma mio marito non lo sa. Qualche volta mi manda dei messaggi e per errore ho dimenticato di cancellarli. Un saluto, un pensiero ogni tanto, niente di ché, ma che comunque ad una donna fa sempre piacere ricevere.
Magari penserà che non ci siamo scambiati solo sms?
Difficili impedirglielo perché è vero che alla fine non ci siamo incontrati, ma nel cellulare non c’è traccia alcuna che lo possa confermare oppure smentire.
Per cui mi sembra normale che gli venga il dubbio e che cominci ad insospettirsi.
Del resto avrei potuto frequentarlo in molte altre occasioni ed averla sempre fatta franca. La situazione è ambigua, rischia di apparire per quella che non è e lascia spazio ad ampie e fin troppo scontate interpretazioni.
In realtà non è successo niente di niente ma questo è difficile da spiegare ad un marito. Come si fa? Per tutto il giorno sono entrata in una spirale perversa di ipotesi e tesi immaginando tutto l’interrogatorio e la scenata di gelosia che come minimo avrei dovuto subire tornata a casa. Urla e piatti rotti che si sarebbero sentiti fino all’ultimo piano. Ma uso il condizionale perché quando sono rientrata da lavoro ho trovato un indifferente silenzio. Mio marito non mi ha detto nulla di ciò che avevo immaginato per tutto il pomeriggio, ha semplicemente ignorato tutta la faccenda, e dopo aver cenato si è addormentato, come tutte le sere, sul divano.
Tutto quello che avevo immaginato, l’angoscia di essere giudicata male e nello stesso tempo la paura di non saper spiegare tutto l’equivoco, i mille aggettivi per potermi giustificare, tutte le mie acrobazie mentali si sono infrante come una bolla di sapone. Era una cosa che non avevo previsto, il silenzio mi ha destabilizzato! Rimasi sconcertata e stupita ed entrai in un vortice di certezze allarmanti.-
-Questo significa che hai un marito intelligente, lui si fida di te, tu sei una donna seria e non ha motivo di preoccuparsi!-
interviene mia sorella che nel frattempo aveva finito di mangiare, mentre io presa dal racconto non avevo più appetito.
-Un marito che trova nel cellulare della moglie due sms di un tizio che non conosce e di cui la moglie non gli ha mai parlato e che la invita per un caffè e due chiacchiere, se non è compromettente è molto equivocabile. Qualsiasi marito di fronte ad una situazione di questo tipo si insospettisce e pensa al peggio, che il caffè è solo un messaggio in codice per un tuffo dove l’acqua è più blu, niente di più e andrà su tutte le furie. Se tu trovassi sms del genere nel cellulare di tuo marito scateneresti l’inferno, chi è questa, dove l’hai conosciuta, quando vi siete visti, come, dove e perché, è più bella di me, che ha lei che io non ho, è giovane, bionda, alta, magra e con gli occhi azzurri? …..altro che scenata di gelosia, non è vero?!?
Io sono davvero disperata, non so più che cosa inventarmi!-
-Inventarti cosa? In che senso, non capisco …-
Le dico io.
-Non sono mica angosciata perché mio marito ha letto i messaggi, in fondo erano falsi. Ho cambiato gestore telefonico e insieme all’abbonamento mi hanno dato un nuovo telefonino con un nuovo numero dal quale ho spedito questi messaggi sul mio vecchio cellulare. Naturalmente questo ragazzo l’ho incontrato realmente in treno, abbiamo scambiato due chiacchiere. Ma chi lo conosce! Nemmeno ricordo il cognome, me ne sono inventato uno. L’ho usato solo come espediente. -
-Espediente?-
Continuo a chiederle.
-Sì, volevo farlo ingelosire, e sono disperata perché non so che altro inventarmi per tenerlo vicino visto che non è più interessato a me. Volevo capire quanto ci tenesse e la reazione di indifferenza ne è la prova evidente: non gliene importa niente! Sono invisibile, non esisto per lui. È praticamente assente, sempre perso dentro i fatti suoi.
Voglio svegliarlo, voglio scuoterlo.
Ho provato di tutto. Ma nonostante non mangI più, aver perso sette chili, cambiato parrucchiere e taglio di capelli mio marito non si accorge di nulla. Mi invento pretesti e vacanze con le colleghe di lavoro solo per ottenere una qualche reazione, perché intendiamoci, del viaggio con le amiche non mi importa proprio nulla. Io voglio sentirmi amata e desiderata da mio marito ed invece mi sento trascurata!
Le donne cambiano look o per sedurre il marito o perché hanno un amante e in entrambi i casi i consorti non si rendono conto di quello che sta succedendo. E con un uomo del genere, sempre addormentato, è ovvio che poi la moglie si fa l’amante …. naturalmente non è quello degli sms e soprattutto non lascio indizi in giro!
Che ne dite se lo provocassi con il farmi vedere da tutti a passeggio per Porto San Giorgio con il cameriere del Tucano’s Beach, magari sentendosi dare del cornuto riesco a rianimarlo....??-
Alla fine non sono riuscita a fare pranzo, una sola forchettata tolta al volo alla moglie delusa.
È avvilente e desolante vedere come le donne si inventino "casualità" per cercare di far rinascere l'interesse in mariti che non sono più attratti. È davvero patetico come si ingegnino a lanciare continui segnali ma questi maschietti non danno segni di vita. Mi sembrava la tragedia di una commedia degli intrighi mal riuscita.
Una storia che sempre si ripete.
Le donne fanno diete assurde, smettono di mangiare per attirare l’attenzione dei loro maschi. Massaggi dimagranti e parrucchieri, biancheria intima e vestitini sexy, minigonne e tacchi a spillo, telefonate, mail e messaggini non servono a niente! Si fingono emancipate, con il solo scopo di far ingelosire il marito perché quello che vogliono è comunque mantenere una condizione di dipendenza costante e continua verso il proprio uomo. Hanno sempre bisogno di una nuova interpretazione per non avanzare credendo che senza un paio di pantaloni in giro per casa siano perse.
Si ostinano inutilmente alla ricerca dell’uomo perfetto che non esiste, ma nel frattempo si sposano e fanno figli …. magari con l’amante!
La diversità non sta nell'ascoltare della sbadataggine presunta o vera della mia amica, ma nel decidere di far leggere al proprio marito ben altro tipo di messaggi e non per finta fatalità, lasciando il telefono dimenticato in qualche angolo della casa, ma leggendoglieli direttamente e di persona. La realtà è che certi mariti se non gli sbatti la verità in faccia credono sempre sia lo scherzo del primo aprile, ma altri, anche se gliela sbatti in faccia, riescono a schivarla facendo finta di non averla mai sentita!
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Di Laura Gioventù
Il mare di fine agosto ha un fascino tutto particolare.
I villeggianti cominciano ad andarsene, le spiagge sono meno affollate. L’aria inizia ad essere più leggera, non si vede una nuvoletta all’orizzonte ed il mare è una tavola blu, come cantava Baglioni.
È sempre il solito paradosso, quando cominciano le vacanze piove sempre e quando si deve rientrare a lavoro fa bel tempo e, per chi può, si va al mare fino al cinque di ottobre, come è successo l’anno scorso.
Per mia sorella è l’ultimo giorno di ferie e la tristezza è quella tipica del primo giorno di scuola. (molta gente è felice il primo giorno di scuola però)
I mariti non ci sono mai, con la scusa del lavoro o degli amici trovano sempre qualcosa di meglio per scappare via, io non ho voglia di cucinare per i fuggiaschi, e lei non vuole perdersi l’ultimo raggio di sole, quindi decidiamo di prendercela comoda e fermarci a pranzo allo chalet, il solito chalet.
Ci sediamo approfittando di un piccolo tavolino sotto la veranda, e mentre stiamo aspettando di pranzare, vado in bagno.
Il tempo di lavarmi le mani che già sono arrivati i miei spaghetti allo scoglio. Ma oltre alla mia pasta trovo al tavolo anche Serena, una nostra amica.
-Ciao Sere, dove stai andando?-
le chiedo mentre mi metto subito seduta perché sto letteralmente svenendo dalla fame e non vedo l’ora di mangiare.
-Sono appena arrivata, vado in spiaggia a fare quattro passi. Ho bisogno di pensare un po’ e di chiarirmi le idee ...-
Perfetto, penso io, così forse ce la farò a mangiare in santa pace.
Serena è sempre lei, la solita invadente appiccicosa, è davvero una brava ragazza, ci mancherebbe, ma quando comincia a parlare è la fine. Tra poco si piazzerà qua e chi la sposta più!
-…ma hai già fatto pranzo? Una passeggiata a quest’ora del giorno non è proprio il massimo.-
le dico.
È un po’ che non la vedo, osservandola meglio la trovo molto dimagrita ma abbronzatissima. Indossa un top a fascia molto sexy e dei pantaloncini bianchi cortissimi. Decisamente troppo audaci per lei che in genere veste in maniera molto più sobria. Sta molto bene così anche se ha l’aria stanca. Anche i capelli hanno qualcosa di strano, e non riesco a capire se li ha solamente stirati oppure anche colorati. Naturalmente non le chiedo nulla altrimenti il suo ego si gonfia come una mongolfiera.
-No, come potrei sono troppo sconvolta e mangiare è l’ultimo dei miei pensieri … -
Inutile che la inviti a sedere perché, come avevo previsto, si è già accomodata tranquillamente da sola e senza nemmeno farsi pregare inizia subito a raccontare. Non ha fame ma la prima forchettata ai miei spaghetti la da lei, alla faccia dei pensieri.
-Ieri mattina sono rientrata a lavoro dopo tre settimane di ferie. Tra la stanchezza accumulata tirando tardi tutte le sere e la fretta di partire per non arrivare in ritardo, prendi questo e prendi quello ho lasciato il cellulare a casa. Non me ne sono accorta fino a quando alle undici mi chiama in ufficio mio marito per avvisarmi del telefonino dimenticato. Mi dice che siccome era arrivato un messaggino, si è permesso di aprirlo e di leggerlo e che si trattava delle solite pubblicità via sms. Mi colse subito un’inquietudine strana e mentre mi stava parlando di un errore su una bolletta elettrica e stronzate varie mi prende il panico! Sulle prime non avevo realizzato ma poi il dubbio atroce che prendendo in mano il telefonino abbia potuto sbirciare e leggere tutti i messaggi memorizzati si insinua prepotentemente nella mia mente. Comincio mentalmente a passare in rassegna tutti gli sms sforzandomi di ricordare che cosa avessi cancellato mentre continuavo ad annuire per inerzia, senza comprendere una sola parola, ai farfugli telefonici di mio marito. Ad un certo punto mi chiede come sia andato l’appuntamento e come era il caffè che ho preso la scorsa settimana con il mio amichetto. Amichetto?! Gelo. Quelle parole mi paralizzarono all’istante.
Se è vero come è vero che due più due fa quattro, ho immediatamente compreso di aver dimenticato di cancellare un paio di sms forse un po’ compromettenti e curiosando nel telefono li ha sicuramente letti. Me ne ero proprio scordata. Terrorizzata per non avere argomenti validi per giustificarmi, stavo pensando a come potergli spiegare ma improvvisamente, per mia fortuna, la conversazione è stata interrotta dall’arrivo di un fornitore.
In realtà non c’era scritto proprio niente di strano, era solo l’invito per un caffè e due chiacchiere di un mio amico che ho conosciuto in treno quando sono andata a trovare mia madre in ospedale l’anno scorso. Invito che tra l’altro non ho nemmeno accettato.-
- e questi, secondo te, sono sms compromettenti? Chissà che pensavo!-
Le dico mentre nel frattempo la mia pasta sta diminuendo a vista d’occhio.
-Questo ragazzo è solo un conoscente, ma mio marito non lo sa. Qualche volta mi manda dei messaggi e per errore ho dimenticato di cancellarli. Un saluto, un pensiero ogni tanto, niente di ché, ma che comunque ad una donna fa sempre piacere ricevere.
Magari penserà che non ci siamo scambiati solo sms?
Difficili impedirglielo perché è vero che alla fine non ci siamo incontrati, ma nel cellulare non c’è traccia alcuna che lo possa confermare oppure smentire.
Per cui mi sembra normale che gli venga il dubbio e che cominci ad insospettirsi.
Del resto avrei potuto frequentarlo in molte altre occasioni ed averla sempre fatta franca. La situazione è ambigua, rischia di apparire per quella che non è e lascia spazio ad ampie e fin troppo scontate interpretazioni.
In realtà non è successo niente di niente ma questo è difficile da spiegare ad un marito. Come si fa? Per tutto il giorno sono entrata in una spirale perversa di ipotesi e tesi immaginando tutto l’interrogatorio e la scenata di gelosia che come minimo avrei dovuto subire tornata a casa. Urla e piatti rotti che si sarebbero sentiti fino all’ultimo piano. Ma uso il condizionale perché quando sono rientrata da lavoro ho trovato un indifferente silenzio. Mio marito non mi ha detto nulla di ciò che avevo immaginato per tutto il pomeriggio, ha semplicemente ignorato tutta la faccenda, e dopo aver cenato si è addormentato, come tutte le sere, sul divano.
Tutto quello che avevo immaginato, l’angoscia di essere giudicata male e nello stesso tempo la paura di non saper spiegare tutto l’equivoco, i mille aggettivi per potermi giustificare, tutte le mie acrobazie mentali si sono infrante come una bolla di sapone. Era una cosa che non avevo previsto, il silenzio mi ha destabilizzato! Rimasi sconcertata e stupita ed entrai in un vortice di certezze allarmanti.-
-Questo significa che hai un marito intelligente, lui si fida di te, tu sei una donna seria e non ha motivo di preoccuparsi!-
interviene mia sorella che nel frattempo aveva finito di mangiare, mentre io presa dal racconto non avevo più appetito.
-Un marito che trova nel cellulare della moglie due sms di un tizio che non conosce e di cui la moglie non gli ha mai parlato e che la invita per un caffè e due chiacchiere, se non è compromettente è molto equivocabile. Qualsiasi marito di fronte ad una situazione di questo tipo si insospettisce e pensa al peggio, che il caffè è solo un messaggio in codice per un tuffo dove l’acqua è più blu, niente di più e andrà su tutte le furie. Se tu trovassi sms del genere nel cellulare di tuo marito scateneresti l’inferno, chi è questa, dove l’hai conosciuta, quando vi siete visti, come, dove e perché, è più bella di me, che ha lei che io non ho, è giovane, bionda, alta, magra e con gli occhi azzurri? …..altro che scenata di gelosia, non è vero?!?
Io sono davvero disperata, non so più che cosa inventarmi!-
-Inventarti cosa? In che senso, non capisco …-
Le dico io.
-Non sono mica angosciata perché mio marito ha letto i messaggi, in fondo erano falsi. Ho cambiato gestore telefonico e insieme all’abbonamento mi hanno dato un nuovo telefonino con un nuovo numero dal quale ho spedito questi messaggi sul mio vecchio cellulare. Naturalmente questo ragazzo l’ho incontrato realmente in treno, abbiamo scambiato due chiacchiere. Ma chi lo conosce! Nemmeno ricordo il cognome, me ne sono inventato uno. L’ho usato solo come espediente. -
-Espediente?-
Continuo a chiederle.
-Sì, volevo farlo ingelosire, e sono disperata perché non so che altro inventarmi per tenerlo vicino visto che non è più interessato a me. Volevo capire quanto ci tenesse e la reazione di indifferenza ne è la prova evidente: non gliene importa niente! Sono invisibile, non esisto per lui. È praticamente assente, sempre perso dentro i fatti suoi.
Voglio svegliarlo, voglio scuoterlo.
Ho provato di tutto. Ma nonostante non mangI più, aver perso sette chili, cambiato parrucchiere e taglio di capelli mio marito non si accorge di nulla. Mi invento pretesti e vacanze con le colleghe di lavoro solo per ottenere una qualche reazione, perché intendiamoci, del viaggio con le amiche non mi importa proprio nulla. Io voglio sentirmi amata e desiderata da mio marito ed invece mi sento trascurata!
Le donne cambiano look o per sedurre il marito o perché hanno un amante e in entrambi i casi i consorti non si rendono conto di quello che sta succedendo. E con un uomo del genere, sempre addormentato, è ovvio che poi la moglie si fa l’amante …. naturalmente non è quello degli sms e soprattutto non lascio indizi in giro!
Che ne dite se lo provocassi con il farmi vedere da tutti a passeggio per Porto San Giorgio con il cameriere del Tucano’s Beach, magari sentendosi dare del cornuto riesco a rianimarlo....??-
Alla fine non sono riuscita a fare pranzo, una sola forchettata tolta al volo alla moglie delusa.
È avvilente e desolante vedere come le donne si inventino "casualità" per cercare di far rinascere l'interesse in mariti che non sono più attratti. È davvero patetico come si ingegnino a lanciare continui segnali ma questi maschietti non danno segni di vita. Mi sembrava la tragedia di una commedia degli intrighi mal riuscita.
Una storia che sempre si ripete.
Le donne fanno diete assurde, smettono di mangiare per attirare l’attenzione dei loro maschi. Massaggi dimagranti e parrucchieri, biancheria intima e vestitini sexy, minigonne e tacchi a spillo, telefonate, mail e messaggini non servono a niente! Si fingono emancipate, con il solo scopo di far ingelosire il marito perché quello che vogliono è comunque mantenere una condizione di dipendenza costante e continua verso il proprio uomo. Hanno sempre bisogno di una nuova interpretazione per non avanzare credendo che senza un paio di pantaloni in giro per casa siano perse.
Si ostinano inutilmente alla ricerca dell’uomo perfetto che non esiste, ma nel frattempo si sposano e fanno figli …. magari con l’amante!
La diversità non sta nell'ascoltare della sbadataggine presunta o vera della mia amica, ma nel decidere di far leggere al proprio marito ben altro tipo di messaggi e non per finta fatalità, lasciando il telefono dimenticato in qualche angolo della casa, ma leggendoglieli direttamente e di persona. La realtà è che certi mariti se non gli sbatti la verità in faccia credono sempre sia lo scherzo del primo aprile, ma altri, anche se gliela sbatti in faccia, riescono a schivarla facendo finta di non averla mai sentita!
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venerdì 20 agosto 2010
CRONACHE DEL RICORDO
Passeggiando in bicicletta … tra passato, presente e futuro.
Di Laura Gioventù
Oggi è quiete, la quiete dopo la tempesta. Ma anche quella che precede il temporale è quiete!
Vabbè, comunque sia, dopo l'acquazzone estivo di ieri è arrivato uno splendido sole, sono da poco passate le 16 ed è il momento ideale per uscire e fare un giro in bicicletta. Mi sembra l’occasione giusta per testarla dopo il restauro. La bicicletta, infatti, modello olandese, apparteneva a mia madre che l’acquistò nel 1973 con i soldi che aveva risparmiato trapuntando, sotto casa, le scarpe. Noi siamo “scarpari”, non ce lo dimentichiamo. E per anni è stata dimenticata in garage, abbandonata alla polvere e alla ruggine, fino a quando, insieme con mia sorella, abbiamo cercato di sistemarla alla meglio.
Monto in sella e scendo per il grande viale alberato che si affaccia sulla provinciale.
Come giro l’angolo mi accorgo di una piccola tabaccheria di cui ignoravo l’esistenza, nonostante, da quando mi sono trasferita qui due anni fa, ci passi davanti quotidianamente.
Sarà per la fretta oppure l’abitudine, ma con la macchina ci si concentra a guardare solo la strada, mentre ora sulle due ruote è buffo vedere come si cambi completamente scenario e punto di vista.
Proseguendo verso Fermo, la strada si fa un pò in salita ma la mia pedalata rimane comunque fluida.
Umidità ed afa sono scomparse ed è come se la pioggia avesse lavato anche l’aria che, così frizzante, rende meno cocente il sole di agosto.
Pedala che ti pedala, all’improvviso, mentre attraverso la viuzza di una piccola frazione, sento la bicicletta girare a vuoto e mi accorgo che la catena è uscita dalla sua sede.
E per fortuna che l’avevamo messa a posto! Questo è un bel guaio – mi dico- ed ora come faccio? Per la solita fretta di uscire, quella fretta maledetta che mi frega sempre, ho dimenticato pure il cellulare a casa!
Mi trovo davanti delle vecchie case tutte attaccate tra loro che stringono formando un piccolo borgo. Faccio alcuni passi con la bicicletta “a barbetta” ed intravedo l’insegna anni settanta di una piccola officina. La serranda è alzata così mi avvicino sperando di trovare qualcuno che possa aiutarmi ma, non appena faccio leva sulla maniglia della porta per entrare, mi accorgo che è chiuso. Provo allora a suonare il campanello.
- Cocca, non c’è nessuno è inutile che insisti! – sento dire,
mi guardo subito intorno per vedere da dove proviene la voce. Mi giro e vedo tre signore anziane sedute davanti l’uscio di una piccola abitazione, tutte intente ad osservare la scena in silenzio.
- Scusi signora, chiedo ad una delle tre, sa per caso se torneranno? L’officina è chiusa, cerco qualcuno che mi sistemi la catena della bicicletta. Chi mi potrebbe aiutare?-
Penso di essere capitata davanti le solite vecchie comari brontolone, rincoglionite e pure un po’ impiccione ma, nonostante la mia perplessità, mi avvicino procedendo a slalom tra i vasi di coccio di gerani spelacchiati che disegnano sul marciapiede uno pseudo recinto.
- Io ho aspettato tutta la vita che tornasse mio marito. Partì per la guerra e non è più tornato. Ancora lo sto aspettando … figlia mia, non tornerà nessuno, l’officina è chiusa! Il proprietario se n’è andato a miglior vita. Anche la casa è vuota, i figli fanno la loro strada e non hanno tempo per i loro vecchi …eh…la “capezzaja”(1) è dura …. ma fammi un po’ vedere qual è il problema …- Mi dice l’anziana signora,
mentre si alza dalla sedia mezza sgangherata e si china per controllare la mia bicicletta.
Minuta, con la schiena curva, la vestaglia a fiorellini incrociata alla vita e lo sguardo severo mi ricorda tanto mia nonna,che parlava proprio come questa signora e comincio a domandarmi chissà quanti anni avrà. Difficile stabilirlo, sicuramente più di ottanta, forse ottantacinque oppure novantacinque....magari anche duecento.
- Ora ci sono le macchine ma ai nostri tempi avevamo solo le biciclette per spostarci e quando eravamo noi a pedalare, dietro avevamo file di giovanotti che ci corteggiavano ogni domenica all’uscita dalla Chiesa. Aspettavano tutta la settimana per poter scambiare due parole, solo due parole con noi...facevamo le preziose…-
E mentre la prima signora era tutta concentrata a trafficare sulla bicicletta, l’altra proseguiva.
- Il sabato si andava a piedi fino a Grottazzolina, con il canestro in testa per vendere la uova al mercato. Facevamo più di dieci kilometri per fare due soldi che mettevamo via per comprare la biancheria, che faceva da corredo per quando ci si maritava...- , racconta la donna seduta sulla panchina di cemento.
Gli anni l’hanno appesantita e i piedi sembra stiano per spararle tanto sono gonfi. E’ tutta presa nel ricordo della sua gioventù e mentre parla sembra gli si sia risvegliato l’ardore di un tempo. Ma questa viene subito interrotta dalla terza donna, impaziente, come i bambini quando fanno a gara a chi corre più veloce, di prendere parola anche lei.
- Non avevamo niente, e molti di questi ragazzi partirono per l’America e l’Australia in cerca di lavoro. Alcuni si sposarono e si costruirono una vita là e non tornarono più in Italia. Di altri ci restano solo i sorrisi e le acconciature piene di brillantina. Chissà ora dove saranno tutti sti ragazzi….Anche le donne partivano, ma non tutte. Io sono rimasta qua ad aspettare per più di otto anni. Ci si sposava ma si restava tutti in famiglia e io avevo i figli troppo piccoli.- Dice la terza donna,
forse la più anziana di tutte, con il volto segnato, l’aria affaticata e la mano destra un po’ tremolante appoggiata ad un bastone.
Continuano a parlare, continuano a raccontare, continuano a ricordare sovrapponendosi fra loro, e hanno tutta l’intenzione di non smettere più.
- La domenica la “vergara” faceva la “pannella”(2). Non compravamo quasi nulla, il pane e la pasta li facevano in casa ogni settimana. Del maiale ammazzato a luna calante non buttavamo via niente e con il grasso avanzato e con la soda ci facevamo il sapone. Attorno al “callà”(3) stavamo ore a mescolare e quando, il sapone non veniva bene per l’invidia dei vicini che avevano malaugurato era una grossa disgrazia.-
-ma queste sono solo vecchie credenze, non è che per caso invece sbagliavate qualcosa nella ricetta?- mi permetto di interromperle.
-No, no, il sapone non veniva per l’invidia dei vicini oppure quando c’era una donna che aveva il ciclo e toccava il bastone che si usava per mescolare! E poi con quello stesso sapone andavamo al fiume a lavare a mano le lenzuola. E dopo averle lavate ci colavamo sopra la cenere con l’acqua bollente. I vestiti, anche quelli ce li cucivamo in casa. La mia era una famiglia numerosa, eravamo otto figli e ci scambiavamo i vestiti tra fratelli. Ci prestavamo anche le scarpe. I primi, di ritorno dalla messa della domenica, le passavano agli altri….i miei fratelli maschi ora sono tutti morti ma io li penso ancora….-
Donne anziane, donne sole, donne sedute sull’uscio delle loro case in un silenzioso riposo, donne a cui non avrei dato neppure un soldo di fiducia ed invece, invece sono proprio loro che mi aggiustano la bici mentre mi raccontano, prese dai ricordi e assalite dalla nostalgia, di quando essere abbronzati costituiva motivo di vergogna perché significava essere dei contadini, che prima di andare a scuola a piedi si “stramavano”(4) i maiali, di quando c’era solo il camino per scaldarsi in inverno e prima di coricarsi si scaldava il letto con “il prete e la monaca”(5), di quando i materassi erano fatti con le sfoglie del granoturco, di quando il ferro da stiro era di ferro e di quando le Marche erano sporche e per andare a Roma si faceva la Salaria a dorso di somaro.
Sono passate più di due ore, la mia bicicletta è sistemata e, mentre ritorno verso casa, ripenso a tutte le storie che mi hanno raccontato e che si confondono con i miei ricordi di bambina, quando mia nonna mi raccontava le stesse cose. Ma io avevo completamente dimenticato del sapone fatto in casa e la “pannella” non ho mai imparato a farla.
Sempre più spesso nella gente che incontro percepisco un disinteresse crescente, soprattutto per le nuove generazioni, nel conoscere le nostre tradizioni. Quasi un rifiuto, come se fosse motivo di vergogna che i nostri nonni fossero stati mezzadri.
Tutti questi racconti, spesso pieni di credenze popolari, sembrano vecchi di secoli ma sono stati realtà fino settant’anni fa. In poco più di cento anni la nostra epoca ha visto grandi cambiamenti. Cambiamenti talmente repentini che si rischia di dimenticare chi siamo e da dove veniamo. Cambiamenti pieni di storie, storie simili a quelle ascoltate, nelle quali queste donne hanno vissuto direttamente, anche se i protagonisti furono altri come loro, diventando presenze silenziose, testimoni di avvenimenti umani tutti da raccontare e da registrare,
e mentre pedalavo pensavo che se non le conservassimo la nostra storia, la storia della vita contadina della Marca Fermana non sarà mai raccontata fino alla fine per come è stata, ma solo per come ci piacerebbe fosse stata e andrà perduta per sempre.
Se non si corre ai ripari registrando tutte queste storie presto perderemo l'identità, la nostra identità, e a quel punto non ci servirà a niente fare le sagre se non ricorderemo il perché da noi il salame si chiama “ciabuscolo” o “ciauscolo”, e che vuol dire “vincisgrassi” e a cosa servono le ricorrenze se nessuno si ricorderà per cosa, se non raccogliamo tutte queste testimonianze tramite interviste o appositi centri di raccolta. Perderemo pure la ricetta del sapone.
È un grande paradosso fare appello alla nostra tradizione e alla Storia di Marca Fermana quando non sappiamo nemmeno conservare questo valore.
Ecco allora che, sulla stessa esperienza fatta alcuni anni fa in Piemonte, si potrebbe dar vita ad un vero e proprio Archivio della Memoria.
La Regione Piemonte finanziò tra il 1993 ed il 1996 un gruppo di ricercatori che andarono nei piccoli paesini ad intervistare gli anziani, con l’intento di documentare, attraverso le fonti orali, l’esperienza di guerra dei reduci del Primo conflitto mondiale ancora presenti sul territorio della provincia di Biella. Un’operazione di recupero e di valorizzazione della memoria e della storia orale dettato dall’urgenza della conservazione e che da una piccola porzione del territorio piemontese si estese alle altre province del Piemonte concludendosi nel 2007 in Lombardia con la videointervista a Delfino Borroni, l’ultimo reduce italiano della Grande guerra.
Facendoli parlare riuscirono a produrre un archivio della memoria notevole, chi parlava dei Savoia e chi del grande Torino, chi della prima macchina Fiat e chi della montagna.
Insomma, attraverso le interviste riuscirono nel compito di memorizzare una parte della storia.
La stessa cosa potrebbe fare la Provincia di Fermo che in forma simile potrebbe allestire dei centri di raccolta dislocati presso i centri sociali dei vari paesini, ed incaricare alcuni ragazzi di intervistare le persone anziane facendo delle video-interviste, raccogliendo racconti, storie e foto. Sarebbe un tentativo di fare storia “dal basso” dando voce, attraverso il ricordo sollecitato, alle persone qualunque, generalmente estranee ai circuiti della memoria “ufficiale” e per questo destinate a non lasciare tracce evidenti.
Note.
(1) Capezzaja, chiamasi l'inizio e la fine del campo da arare. L’espressione “…è dura la capezzaja” si usa, sempre più raramente, come eufemismo per indicare la vecchiaia, ovvero l'ultimo pezzo di vita più difficile come la fine del campo da arare dove diventa difficile girarsi con l’aratro.
(2) Pannella, ovvero “sfoglia” di pasta fresca all’uovo. Materia prima per lasagne o tagliatelle, in base a come viene tagliata.
(3) Callà, abbreviazione di “calderone”, grande contenitore in rame.
(4) Stramare, ovvero abbeverare il bestiame.
(5) Prete e Monaca, nome usato per indicare quella struttura di legno che si posizionava nel letto tra il materasso e la coperta. Al centro di questa struttura si piazzava una ciotola con manico di terracotta, la monaca, nella quale veniva messo carbone acceso e cenere che riscaldavano il letto. Il prete impediva alle lenzuola di essere a contatto con il carbone e di prendere quindi fuoco.
Pubblicato su .... www.informazione.tv
Di Laura Gioventù
Contadini fotodi Gianluca Stradiotti da www.fotocommunity.it |
Oggi è quiete, la quiete dopo la tempesta. Ma anche quella che precede il temporale è quiete!
Vabbè, comunque sia, dopo l'acquazzone estivo di ieri è arrivato uno splendido sole, sono da poco passate le 16 ed è il momento ideale per uscire e fare un giro in bicicletta. Mi sembra l’occasione giusta per testarla dopo il restauro. La bicicletta, infatti, modello olandese, apparteneva a mia madre che l’acquistò nel 1973 con i soldi che aveva risparmiato trapuntando, sotto casa, le scarpe. Noi siamo “scarpari”, non ce lo dimentichiamo. E per anni è stata dimenticata in garage, abbandonata alla polvere e alla ruggine, fino a quando, insieme con mia sorella, abbiamo cercato di sistemarla alla meglio.
Monto in sella e scendo per il grande viale alberato che si affaccia sulla provinciale.
Come giro l’angolo mi accorgo di una piccola tabaccheria di cui ignoravo l’esistenza, nonostante, da quando mi sono trasferita qui due anni fa, ci passi davanti quotidianamente.
Sarà per la fretta oppure l’abitudine, ma con la macchina ci si concentra a guardare solo la strada, mentre ora sulle due ruote è buffo vedere come si cambi completamente scenario e punto di vista.
Proseguendo verso Fermo, la strada si fa un pò in salita ma la mia pedalata rimane comunque fluida.
Umidità ed afa sono scomparse ed è come se la pioggia avesse lavato anche l’aria che, così frizzante, rende meno cocente il sole di agosto.
Pedala che ti pedala, all’improvviso, mentre attraverso la viuzza di una piccola frazione, sento la bicicletta girare a vuoto e mi accorgo che la catena è uscita dalla sua sede.
E per fortuna che l’avevamo messa a posto! Questo è un bel guaio – mi dico- ed ora come faccio? Per la solita fretta di uscire, quella fretta maledetta che mi frega sempre, ho dimenticato pure il cellulare a casa!
Mi trovo davanti delle vecchie case tutte attaccate tra loro che stringono formando un piccolo borgo. Faccio alcuni passi con la bicicletta “a barbetta” ed intravedo l’insegna anni settanta di una piccola officina. La serranda è alzata così mi avvicino sperando di trovare qualcuno che possa aiutarmi ma, non appena faccio leva sulla maniglia della porta per entrare, mi accorgo che è chiuso. Provo allora a suonare il campanello.
- Cocca, non c’è nessuno è inutile che insisti! – sento dire,
mi guardo subito intorno per vedere da dove proviene la voce. Mi giro e vedo tre signore anziane sedute davanti l’uscio di una piccola abitazione, tutte intente ad osservare la scena in silenzio.
- Scusi signora, chiedo ad una delle tre, sa per caso se torneranno? L’officina è chiusa, cerco qualcuno che mi sistemi la catena della bicicletta. Chi mi potrebbe aiutare?-
Penso di essere capitata davanti le solite vecchie comari brontolone, rincoglionite e pure un po’ impiccione ma, nonostante la mia perplessità, mi avvicino procedendo a slalom tra i vasi di coccio di gerani spelacchiati che disegnano sul marciapiede uno pseudo recinto.
- Io ho aspettato tutta la vita che tornasse mio marito. Partì per la guerra e non è più tornato. Ancora lo sto aspettando … figlia mia, non tornerà nessuno, l’officina è chiusa! Il proprietario se n’è andato a miglior vita. Anche la casa è vuota, i figli fanno la loro strada e non hanno tempo per i loro vecchi …eh…la “capezzaja”(1) è dura …. ma fammi un po’ vedere qual è il problema …- Mi dice l’anziana signora,
mentre si alza dalla sedia mezza sgangherata e si china per controllare la mia bicicletta.
Minuta, con la schiena curva, la vestaglia a fiorellini incrociata alla vita e lo sguardo severo mi ricorda tanto mia nonna,che parlava proprio come questa signora e comincio a domandarmi chissà quanti anni avrà. Difficile stabilirlo, sicuramente più di ottanta, forse ottantacinque oppure novantacinque....magari anche duecento.
- Ora ci sono le macchine ma ai nostri tempi avevamo solo le biciclette per spostarci e quando eravamo noi a pedalare, dietro avevamo file di giovanotti che ci corteggiavano ogni domenica all’uscita dalla Chiesa. Aspettavano tutta la settimana per poter scambiare due parole, solo due parole con noi...facevamo le preziose…-
E mentre la prima signora era tutta concentrata a trafficare sulla bicicletta, l’altra proseguiva.
- Il sabato si andava a piedi fino a Grottazzolina, con il canestro in testa per vendere la uova al mercato. Facevamo più di dieci kilometri per fare due soldi che mettevamo via per comprare la biancheria, che faceva da corredo per quando ci si maritava...- , racconta la donna seduta sulla panchina di cemento.
Gli anni l’hanno appesantita e i piedi sembra stiano per spararle tanto sono gonfi. E’ tutta presa nel ricordo della sua gioventù e mentre parla sembra gli si sia risvegliato l’ardore di un tempo. Ma questa viene subito interrotta dalla terza donna, impaziente, come i bambini quando fanno a gara a chi corre più veloce, di prendere parola anche lei.
- Non avevamo niente, e molti di questi ragazzi partirono per l’America e l’Australia in cerca di lavoro. Alcuni si sposarono e si costruirono una vita là e non tornarono più in Italia. Di altri ci restano solo i sorrisi e le acconciature piene di brillantina. Chissà ora dove saranno tutti sti ragazzi….Anche le donne partivano, ma non tutte. Io sono rimasta qua ad aspettare per più di otto anni. Ci si sposava ma si restava tutti in famiglia e io avevo i figli troppo piccoli.- Dice la terza donna,
forse la più anziana di tutte, con il volto segnato, l’aria affaticata e la mano destra un po’ tremolante appoggiata ad un bastone.
Continuano a parlare, continuano a raccontare, continuano a ricordare sovrapponendosi fra loro, e hanno tutta l’intenzione di non smettere più.
- La domenica la “vergara” faceva la “pannella”(2). Non compravamo quasi nulla, il pane e la pasta li facevano in casa ogni settimana. Del maiale ammazzato a luna calante non buttavamo via niente e con il grasso avanzato e con la soda ci facevamo il sapone. Attorno al “callà”(3) stavamo ore a mescolare e quando, il sapone non veniva bene per l’invidia dei vicini che avevano malaugurato era una grossa disgrazia.-
-ma queste sono solo vecchie credenze, non è che per caso invece sbagliavate qualcosa nella ricetta?- mi permetto di interromperle.
-No, no, il sapone non veniva per l’invidia dei vicini oppure quando c’era una donna che aveva il ciclo e toccava il bastone che si usava per mescolare! E poi con quello stesso sapone andavamo al fiume a lavare a mano le lenzuola. E dopo averle lavate ci colavamo sopra la cenere con l’acqua bollente. I vestiti, anche quelli ce li cucivamo in casa. La mia era una famiglia numerosa, eravamo otto figli e ci scambiavamo i vestiti tra fratelli. Ci prestavamo anche le scarpe. I primi, di ritorno dalla messa della domenica, le passavano agli altri….i miei fratelli maschi ora sono tutti morti ma io li penso ancora….-
Donne anziane, donne sole, donne sedute sull’uscio delle loro case in un silenzioso riposo, donne a cui non avrei dato neppure un soldo di fiducia ed invece, invece sono proprio loro che mi aggiustano la bici mentre mi raccontano, prese dai ricordi e assalite dalla nostalgia, di quando essere abbronzati costituiva motivo di vergogna perché significava essere dei contadini, che prima di andare a scuola a piedi si “stramavano”(4) i maiali, di quando c’era solo il camino per scaldarsi in inverno e prima di coricarsi si scaldava il letto con “il prete e la monaca”(5), di quando i materassi erano fatti con le sfoglie del granoturco, di quando il ferro da stiro era di ferro e di quando le Marche erano sporche e per andare a Roma si faceva la Salaria a dorso di somaro.
Sono passate più di due ore, la mia bicicletta è sistemata e, mentre ritorno verso casa, ripenso a tutte le storie che mi hanno raccontato e che si confondono con i miei ricordi di bambina, quando mia nonna mi raccontava le stesse cose. Ma io avevo completamente dimenticato del sapone fatto in casa e la “pannella” non ho mai imparato a farla.
Sempre più spesso nella gente che incontro percepisco un disinteresse crescente, soprattutto per le nuove generazioni, nel conoscere le nostre tradizioni. Quasi un rifiuto, come se fosse motivo di vergogna che i nostri nonni fossero stati mezzadri.
Tutti questi racconti, spesso pieni di credenze popolari, sembrano vecchi di secoli ma sono stati realtà fino settant’anni fa. In poco più di cento anni la nostra epoca ha visto grandi cambiamenti. Cambiamenti talmente repentini che si rischia di dimenticare chi siamo e da dove veniamo. Cambiamenti pieni di storie, storie simili a quelle ascoltate, nelle quali queste donne hanno vissuto direttamente, anche se i protagonisti furono altri come loro, diventando presenze silenziose, testimoni di avvenimenti umani tutti da raccontare e da registrare,
e mentre pedalavo pensavo che se non le conservassimo la nostra storia, la storia della vita contadina della Marca Fermana non sarà mai raccontata fino alla fine per come è stata, ma solo per come ci piacerebbe fosse stata e andrà perduta per sempre.
Se non si corre ai ripari registrando tutte queste storie presto perderemo l'identità, la nostra identità, e a quel punto non ci servirà a niente fare le sagre se non ricorderemo il perché da noi il salame si chiama “ciabuscolo” o “ciauscolo”, e che vuol dire “vincisgrassi” e a cosa servono le ricorrenze se nessuno si ricorderà per cosa, se non raccogliamo tutte queste testimonianze tramite interviste o appositi centri di raccolta. Perderemo pure la ricetta del sapone.
È un grande paradosso fare appello alla nostra tradizione e alla Storia di Marca Fermana quando non sappiamo nemmeno conservare questo valore.
Ecco allora che, sulla stessa esperienza fatta alcuni anni fa in Piemonte, si potrebbe dar vita ad un vero e proprio Archivio della Memoria.
La Regione Piemonte finanziò tra il 1993 ed il 1996 un gruppo di ricercatori che andarono nei piccoli paesini ad intervistare gli anziani, con l’intento di documentare, attraverso le fonti orali, l’esperienza di guerra dei reduci del Primo conflitto mondiale ancora presenti sul territorio della provincia di Biella. Un’operazione di recupero e di valorizzazione della memoria e della storia orale dettato dall’urgenza della conservazione e che da una piccola porzione del territorio piemontese si estese alle altre province del Piemonte concludendosi nel 2007 in Lombardia con la videointervista a Delfino Borroni, l’ultimo reduce italiano della Grande guerra.
Facendoli parlare riuscirono a produrre un archivio della memoria notevole, chi parlava dei Savoia e chi del grande Torino, chi della prima macchina Fiat e chi della montagna.
Insomma, attraverso le interviste riuscirono nel compito di memorizzare una parte della storia.
La stessa cosa potrebbe fare la Provincia di Fermo che in forma simile potrebbe allestire dei centri di raccolta dislocati presso i centri sociali dei vari paesini, ed incaricare alcuni ragazzi di intervistare le persone anziane facendo delle video-interviste, raccogliendo racconti, storie e foto. Sarebbe un tentativo di fare storia “dal basso” dando voce, attraverso il ricordo sollecitato, alle persone qualunque, generalmente estranee ai circuiti della memoria “ufficiale” e per questo destinate a non lasciare tracce evidenti.
Note.
(1) Capezzaja, chiamasi l'inizio e la fine del campo da arare. L’espressione “…è dura la capezzaja” si usa, sempre più raramente, come eufemismo per indicare la vecchiaia, ovvero l'ultimo pezzo di vita più difficile come la fine del campo da arare dove diventa difficile girarsi con l’aratro.
(2) Pannella, ovvero “sfoglia” di pasta fresca all’uovo. Materia prima per lasagne o tagliatelle, in base a come viene tagliata.
(3) Callà, abbreviazione di “calderone”, grande contenitore in rame.
(4) Stramare, ovvero abbeverare il bestiame.
(5) Prete e Monaca, nome usato per indicare quella struttura di legno che si posizionava nel letto tra il materasso e la coperta. Al centro di questa struttura si piazzava una ciotola con manico di terracotta, la monaca, nella quale veniva messo carbone acceso e cenere che riscaldavano il letto. Il prete impediva alle lenzuola di essere a contatto con il carbone e di prendere quindi fuoco.
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lunedì 16 agosto 2010
CRONACHE DOMESTICHE
Si deve smettere di tacere quando si ha qualcosa da dire che valga più del silenzio
di Laura Gioventù
Porto San Giorgio/Fermo - “Sono questioni private” sono queste le parole di commento del primo cittadino Sangiorgese rilasciate alla stampa locale quando la notizia dell’arresto del dipendente comunale è diventata ufficiale.
L'uomo, 60enne, residente a Fermo e addetto al servizio anagrafe del comune di Porto San Giorgio, dopo la denuncia della moglie 66enne, è stato prelevato dal suo posto di lavoro lo scorso mercoledì (11 agosto), verso l'orario di chiusura, con l’accusa di percosse, lesioni, umiliazioni e vessazioni di ogni tipo nei confronti della moglie.
Solo dopo 30 anni di maltrattamenti, soprusi e violenze fisiche e psicologiche la signora, che si era rivolta al pronto soccorso per la cura delle ennesime lesioni procurategli dal marito, ha detto basta, si è fatta coraggio e ha denunciato il coniuge.
Solo dopo trenta anni?
Trenta lunghissimi anni?
Come è possibile?
A Fermo, a Porto San Giorgio, nelle Marche, dove si vive tanto bene con le case tutte nane?
Sì, e probabilmente non sarà l’unico caso di violenza tra le mura di casa. Molti abusi infatti restano non denunciati.
Ma l’episodio, nei piccoli paesi della nostra Provincia, dove si fa sempre un gran chiacchiericcio e le notizie viaggiano più veloci della luce, sembra non aver scandalizzato più di tanto l’opinione pubblica! Come mai?
I cittadini, forse ancora reduci dagli eccessi della notte rosa sangiorgese, sembrano più preoccupati di godersi le vacanze al mare e più interessati ad assistere allo squallido “teatrino della politica” offertoci in questi giorni sui quotidiani online proprio dai politici locali.
In un clima omertoso ed indifferente tutti leggono e rimangono impassibili e nemmeno le donne esprimono solidarietà ed indignazione per le loro simili.
E allora, proprio al Sindaco Agostini, che da ignavo si è ben guardato dall’entrare nel merito di tutta la faccenda sia dal un punto di vista legale sia morale glissando superficialmente la questione, vorrei proporre, in qualità di datore di lavoro dell’uomo, un possibile intervento.
Se una moglie per tanti anni subisce violenza al punto da far arrestare il marito, non sarebbe giusto, come risarcimento danni da parte del marito –che dovrebbe essere licenziato-, cederle il suo posto di lavoro così da renderlo indigente e non poter imporre alla moglie una sudditanza che spesso è principalmente economica? Oppure, in alternativa al lavoro, vista l’età della donna nel caso specifico, non si potrebbe almeno passare alla signora l’intero stipendio del marito?
Sarebbe un’azione di aiuto emblematica e al tempo stesso concreta e potrebbe essere l’esempio che potrebbe convincere molte donne ad uscire dal silenzio. Un posto di lavoro (nei casi in cui sia possibile) e/o una garanzia economica le aiuterebbero ad avere più coraggio perché questi sono i dati attuali:
8 casi di violenza fisica e di molestia su 10 avvengono in casa, nel 70% per mano del partner.
Il 69% degli stupri è commesso da un partner.
Il 90% delle violenze non viene denunciato.
Purtroppo le violenze fisiche, sessuali, psicologiche ed economiche sono ancora un tabù, e le donne che denunciano sono ancora pochissime, anche se in crescita.
Perché?
Perché nel nostro paese le donne continuano a stare al chiodo. Non portiamo lo chador o chadar o burqa, ma un velo di altro tipo: mentale e ce l’hanno messo proprio le nostre madri, zie e nonne. È questa la cosa più triste!
Alla base del silenzio ci sono una serie di motivazioni legate alla cultura e alla psicologia che si innescano nelle vittime, ma anche e soprattutto ragioni economiche, perché una donna maltrattata, senza lavoro, con figli piccoli, senza un posto dove andare e senza una famiglia alle spalle, in Italia è perduta!
Le associazioni per i diritti delle donne maltrattate offrono gratuitamente il primo incontro legale e psicologico ma poi, con qualche sconto, è la donna che deve provvedere a pagare le spese legali.
Senza parlare delle leggi italiane che di fatto non tutelano le donne vittime di violenze.
In Italia le mogli che hanno un carattere ''forte'' e che non si lasciano ''intimorire'' possono vedere assolti i mariti che le maltrattano. Infatti, proprio lo scorso 2 luglio, l’ANSA ha diffuso la notizia che la Cassazione ha annullato la condanna a 8 mesi di reclusione nei confronti di un marito, perché l'uomo ha sostenuto con successo che non si trattava di maltrattamenti, in quanto la moglie ''non era per nulla intimorita'', ma solo ''scossa ed esasperata''.
Questo è vergognoso!
di Laura Gioventù
Al Sindaco di Porto San Giorgio, Avv. Andrea Agostini,
A tutte le donne,
A tutte le donne Sindaco e/o che ricoprono cariche amministrative pubbliche,
Al Presidente della Provincia di Fermo, ed a tutti i Sindaci della Provincia di Fermo,
All’Assessore alle politiche sociali, giovanili, per la famiglia e per la pace, cooperazione e sviluppo, pari opportunità e dello sport della Provincia di Fermo Dott. Gaetano Massucci.
Al Presidente della Provincia di Fermo, ed a tutti i Sindaci della Provincia di Fermo,
All’Assessore alle politiche sociali, giovanili, per la famiglia e per la pace, cooperazione e sviluppo, pari opportunità e dello sport della Provincia di Fermo Dott. Gaetano Massucci.
Porto San Giorgio/Fermo - “Sono questioni private” sono queste le parole di commento del primo cittadino Sangiorgese rilasciate alla stampa locale quando la notizia dell’arresto del dipendente comunale è diventata ufficiale.
L'uomo, 60enne, residente a Fermo e addetto al servizio anagrafe del comune di Porto San Giorgio, dopo la denuncia della moglie 66enne, è stato prelevato dal suo posto di lavoro lo scorso mercoledì (11 agosto), verso l'orario di chiusura, con l’accusa di percosse, lesioni, umiliazioni e vessazioni di ogni tipo nei confronti della moglie.
Solo dopo 30 anni di maltrattamenti, soprusi e violenze fisiche e psicologiche la signora, che si era rivolta al pronto soccorso per la cura delle ennesime lesioni procurategli dal marito, ha detto basta, si è fatta coraggio e ha denunciato il coniuge.
Solo dopo trenta anni?
Trenta lunghissimi anni?
Come è possibile?
A Fermo, a Porto San Giorgio, nelle Marche, dove si vive tanto bene con le case tutte nane?
Sì, e probabilmente non sarà l’unico caso di violenza tra le mura di casa. Molti abusi infatti restano non denunciati.
Ma l’episodio, nei piccoli paesi della nostra Provincia, dove si fa sempre un gran chiacchiericcio e le notizie viaggiano più veloci della luce, sembra non aver scandalizzato più di tanto l’opinione pubblica! Come mai?
I cittadini, forse ancora reduci dagli eccessi della notte rosa sangiorgese, sembrano più preoccupati di godersi le vacanze al mare e più interessati ad assistere allo squallido “teatrino della politica” offertoci in questi giorni sui quotidiani online proprio dai politici locali.
In un clima omertoso ed indifferente tutti leggono e rimangono impassibili e nemmeno le donne esprimono solidarietà ed indignazione per le loro simili.
E allora, proprio al Sindaco Agostini, che da ignavo si è ben guardato dall’entrare nel merito di tutta la faccenda sia dal un punto di vista legale sia morale glissando superficialmente la questione, vorrei proporre, in qualità di datore di lavoro dell’uomo, un possibile intervento.
Se una moglie per tanti anni subisce violenza al punto da far arrestare il marito, non sarebbe giusto, come risarcimento danni da parte del marito –che dovrebbe essere licenziato-, cederle il suo posto di lavoro così da renderlo indigente e non poter imporre alla moglie una sudditanza che spesso è principalmente economica? Oppure, in alternativa al lavoro, vista l’età della donna nel caso specifico, non si potrebbe almeno passare alla signora l’intero stipendio del marito?
Sarebbe un’azione di aiuto emblematica e al tempo stesso concreta e potrebbe essere l’esempio che potrebbe convincere molte donne ad uscire dal silenzio. Un posto di lavoro (nei casi in cui sia possibile) e/o una garanzia economica le aiuterebbero ad avere più coraggio perché questi sono i dati attuali:
8 casi di violenza fisica e di molestia su 10 avvengono in casa, nel 70% per mano del partner.
Il 69% degli stupri è commesso da un partner.
Il 90% delle violenze non viene denunciato.
Purtroppo le violenze fisiche, sessuali, psicologiche ed economiche sono ancora un tabù, e le donne che denunciano sono ancora pochissime, anche se in crescita.
Perché?
Perché nel nostro paese le donne continuano a stare al chiodo. Non portiamo lo chador o chadar o burqa, ma un velo di altro tipo: mentale e ce l’hanno messo proprio le nostre madri, zie e nonne. È questa la cosa più triste!
Alla base del silenzio ci sono una serie di motivazioni legate alla cultura e alla psicologia che si innescano nelle vittime, ma anche e soprattutto ragioni economiche, perché una donna maltrattata, senza lavoro, con figli piccoli, senza un posto dove andare e senza una famiglia alle spalle, in Italia è perduta!
Le associazioni per i diritti delle donne maltrattate offrono gratuitamente il primo incontro legale e psicologico ma poi, con qualche sconto, è la donna che deve provvedere a pagare le spese legali.
Senza parlare delle leggi italiane che di fatto non tutelano le donne vittime di violenze.
In Italia le mogli che hanno un carattere ''forte'' e che non si lasciano ''intimorire'' possono vedere assolti i mariti che le maltrattano. Infatti, proprio lo scorso 2 luglio, l’ANSA ha diffuso la notizia che la Cassazione ha annullato la condanna a 8 mesi di reclusione nei confronti di un marito, perché l'uomo ha sostenuto con successo che non si trattava di maltrattamenti, in quanto la moglie ''non era per nulla intimorita'', ma solo ''scossa ed esasperata''.
Questo è vergognoso!
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